Troppo sbrigativamente classificato come pigro esemplare della recente ondata di drammi civili antirazzisti hollywoodiani, Loving possiede molte altre sfumature tra le righe. 

Negli anni ’50 si sono imposti dei valori standard di sensibilità delle pellicole, delle pratiche di illuminazione e dei parametri di esposizione del volto umano che sono rimasti pressoché invariati fino ad oggi. Questo ha fatto sì che per circa mezzo secolo di storia del cinema, se si volevano rappresentare nella stessa inquadratura una persona bianca e una di colore, quest’ultima sarebbe risultata una macchia scura, sotto-esposta. La strumentazione fotografica più diffusa si era plasmata sulle necessità di un pubblico bianco, e non era in grado di fornire una rappresentazione esteticamente adeguata di tutte le altre etnie. Questa semplice constatazione ha portato Richard Dyer, nel 1990, a parlare di “tecno-razzismo” e della parzialità della tecnologia, e ha anche bandito le coppie interraziali dall’orizzonte del rappresentabile del cinema americano.

Jeff Nichols rompe questo clamoroso silenzio con Loving, ispirato alla storia vera di due coniugi che nella Virginia degli anni ’50 combatterono le leggi segregazioniste che impedivano il loro matrimonio. Le aspettative dello spettatore, che già pregusta i toni enfatici della grande narrazione hollywoodiana, vengono però disattese fin dal principio, perché Loving è costruito interamente per sottrazione: a cavallo fra il mélo familiare e il dramma giudiziario – come dimostra la sequenza in montaggio alternato fra l’udienza alla Corte Suprema e le scene di vita domestica – il film non ha né i picchi emotivi del primo né il ritmo incalzante del secondo. Persino il verdetto finale rimane relegato fuori campo, in una logica anti-spettacolare che asciuga la sceneggiatura e inibisce la macchina da presa, limitata a pochi movimenti essenziali. Loving rasenta a tratti l’afasia, e finisce per assomigliare terribilmente al suo protagonista maschile (Joel Edgerton) che solo in rare miracolose occasioni riesce ad emergere dalla sua scorza di redneck burbero e taciturno.

Con la stessa pacata saggezza Jeff Nichols ha il merito di resistere alla tentazione di popolare il film di capri espiatori e villain caricaturali: il potere – così come il razzismo – non sono mai mostrati in volto, e si incarnano nella società intera. Il costante senso di incertezza che circonda i coniugi, costretti a vivere come animali braccati, testimonia di un razzismo che non esplode mai nella violenza fisica ma si fa sistemico e pervasivo.

Meno didascalico de Il diritto di contare (Theodore Melfi) e meno sperimentatore di Moonlight (Barry Jenkins), Loving si aggiunge così alla nutrita schiera dei black movies contemporanei senza fare clamore, e disattende tutti i canoni del cinema “based on a true story”. Quello di Jeff Nichols è piuttosto un ottimo esempio di cinema civile, realizzato con la stessa pazienza e devozione con cui il protagonista costruisce, mattone dopo mattone, una casa per la sua famiglia.

Maria Sole Colombo