Ricomincia l’avventura distributiva di “Cinema Ritrovato al Cinema”, ed è già il turno – dal 25 settembre in tutta Italia – di I 400 colpi, esordio di François Truffaut e meraviglioso film fondativo della Nouvelle Vague. Che cosa c’è ancora da dire su questo capolavoro? Forse basta ritornare a quel che se n’è detto. E – utilizzando il ricco minisito dedicato al film – offriamo le parole di un critico un po’ dimenticato, eppure raffinatissimo e molto particolare, Oreste De Fornari. Segue.Uno dei pregi del film è di non aver fatto di Antoine un caso-limite: Antoine è un adolescente come tanti, né troppo cattivo né troppo sfortunato. Ciò che gli capita, potrebbe succedere a tutti, in una società come la nostra, alla sua età. Complice e vittima allo stesso tempo, egli è soprattutto solo. La sensazione di essere indesiderato da tutti e da tutti a stento sopportato, è la misura della sua angoscia. Figlio non voluto («…ho saputo che…mia madre avrebbe voluto abortire», confessa alla psicologa), allievo sgradito, la sua presenza è mal tollerata da insegnanti per nulla disposti a sopportarne l’irrequietezza e dagli stessi genitori, una coppia di ottusi piccolo-borghesi, distratti da interessi divergenti e afflitti dai mille problemi quotidiani cui stentano a far fronte. La stessa collocazione di Antoine nell’angusto appartamento esprime bene la sua condizione di ospite incomodo: il suo letto è ricavato in uno stretto corridoio che funge anche da vestibolo, con i disagi che si possono immaginare.
Non più bambino e non ancora uomo, non può avere amici e stabilire rapporti se non con chi è nelle sue stesse condizioni (René). Respinto dagli adulti (di cui prende a imitare il comportamento, provandosi a bere e a fumare), stenta a identificarsi nei ruoli infantili cui vorrebbero ancora obbligarlo. Al teatro dei burattini si diverte ma, durante la rappresentazione si distrae per concertare insieme a René il furto della macchina da scrivere. Le donne lo attraggono: ma, quando nella notte si unisce a Jeanne Moreau nella ricerca di un cane sfuggito al guinzaglio, è ancora un uomo (Jean-Claude Brialy) a prendere il suo posto, cacciandolo in malo modo. Tuttavia è abbastanza grande perché la polizia non ci pensi due volte a rinchiuderlo in cella con prostitute e rapinatori. La tragedia di Antoine è tutto qui: la ricerca delle cause che determinano l’emarginazione del ragazzo non sembra interessare Truffaut. Lo spettatore è lasciato libero di spiegarne le cause come meglio crede.
Ma l’apparenza documentaristica della narrazione (raramente la macchina da presa si sostituisce al protagonista e “vede” con i suoi occhi: significativa eccezione, la città di notte vista dall’interno del cellulare che trasporta Antoine al commissariato), si rovescia presto, per tendere all’identificazione soggettiva della spettatore con il protagonista. Antoine è pressoché sempre in campo, inquadrato da una macchina da presa che non lo abbandona neppure un istante, che spezza continuamente la continuità spazio-temporale con improvvisi primi piani, intenzionati a scrutare sul volto espressivo e mobile di Jeanne-Pierre Léaud i sentimenti di Antoine, il suo bisogno di affetto, la ribellione, la paura, la sensazione di solitudine e di frustrazione, che costringono lo spettatore a simpatizzare con il protagonista, senza riserve. Così l’oggettività della ripresa si rovescia nel proprio opposto: culmine di un procedimento stilistico siffatto – capace di trasformare in funzione soggettiva una soluzione documentaristica, di derivazione televisiva – è la celebre sequenza del colloquio con la psicologa, al riformatorio. Abolendo la soluzione drammatica tradizionale (il campo-controcampo), Truffaut riprende in primo piano Antoine mentre, in un lunghissimo piano-sequenza, risponde alle domande della dottoressa, fuori campo.
In questo modo Truffaut perviene, per il tramite di una finzione progressivamente sganciata dagli stilemi convenzionali, alla verità del cinema diretto, che è improvvisazione e reinvenzione continua delle proprie forme.
Uno dei film manifesto della Nouvelle Vague, dove tutto annuncia la lunga stagione dell’ambiguità. Dal titolo, che in francese vuol dire “farne di cotte e di crude” e nelle altre lingue assume connotazioni balistico avventurose. All’ideologia, sospesa tra anarchismo alla Vigo e moralismo da premio OCIC: i guai del piccolo Antoine non deriveranno dalla mancanza di una famiglia regolare?
Perfetta icona di ambiguità, il volto neutro di Jean-Pierre Léaud, che riassume i mutismi dell’età ingrata e le seduzioni fredde della fenomenologia. Il suo Antoine, più che una vittima della società o un piccolo ribelle, sembra un tipo insofferente e un po’ informe, come sono spesso i tredicenni.
Truffaut, narratore moderno, drammatizza i suoi tentativi di costruirsi un destino romanzesco, ma ricordando che tutto, da un momento all’altro, potrebbe rientrare nel quotidiano. Anche l’episodio più avventuroso, il furto della macchina per scrivere, scivola implacabilmente nella banalità e Antoine non viene scoperto mentre ruba, ma quando, deluso e impaurito, torna nell’ufficio per restituire la refurtiva.
Insomma, più che la recitazione sono i ritmi a tradurre gli stati d’animo. Ritmi ellittici delle scorribande per Parigi, ritmi dilatati della routine casalinga, tempi reali da cinéma-verité nel colloquio con la psicologa, girato tutto sul primo piano del ragazzo (l’idea di montarlo così era nata per caso, perché l’attrice non era a Parigi).
Storie di improvvisatori raccontate con improvvisazioni di stile: è il marchio d’origine della Nuovelle Vague, poi rapidamente inflazionato.»
Oreste De Fornari, I film di François Truffaut, Gremese Editore, Roma 1986.