Cinefilia Ritrovata ospita oggi un approfondimento sulla censura dei western italiani, a partire dalla retrospettiva dedicata al filone, e ha chiesto a Marzia Ruta, che lavora nel progetto Italia Taglia della Cineteca di Bologna, un approfondimento. Eccolo:

“Com’è  possibile che persone tranquille, not-twisted people, poi vadano al cinema e si divertano un mondo a vedere film violenti e pieni di spargimenti di sangue?”, domandava un giornalista di Channel 4 a Quentin Tarantino, durante un’intervista promozionale in vista dell’uscita  europea di Django Unchained. “Perché è un film, è finzione”, replica Tarantino e aggiunge, con aria sempre più esausta, che indagare sul legame tra la violenza nei film e la violenza nella vita reale non fa  in alcun modo parte del suo lavoro come regista.

La diatriba sul pericolo di una possibile connessione tra la crudeltà rappresentata al cinema e quella sperimentata – o addirittura perpetrata – dagli spettatori nel quotidiano, è vecchia almeno quanto quella sul primato dell’uovo sulla gallina o viceversa. Sicuramente essa è il filo conduttore di tutte le battaglie che gli autori e i produttori dei western all’italiana si sono trovati a dover condurre contro le decisioni della famigerata  commissione di revisione cinematografica, decisioni sempre orientate verso un legame di consequenzialità della violenza rappresentata su quella reale.

Nel 1971 Giù la testa  viene esaminato dalla commissione e giudicato inadatto alla visione dei minori di 14 anni per via “delle sequenze di violenza verso uomini rappresentate in forma particolarmente impressionante”. Nella lettera di ricorso contro il parere della commissione, Sergio Leone respinge il termine “impressionante” e, diversamente da quanto fatto da Tarantino 42 anni dopo, sceglie di prendere posizione e sottolineare come “le scene di combattimento contenute nel film tendano soltanto a dimostrare come vi siano momenti, nella vita degli uomini e delle nazioni, in cui si perde il senso della vita, dell’amicizia e dell’umanità stessa”.  In quel caso, forse per via dell’inconfutabile statura di capolavoro cinematografico del film, il divieto venne revocato in appello senza richiesta di tagli.

Non andò così bene alla maggior parte dei titoli ospitati questo mese in Cineteca nell’ambito del programma speciale ‘Django e i suoi fratelli’ dedicato allo Spaghetti Western.

Sergio Corbucci fu costretto a portare in commissione ben tre edizioni del suo Django prima che al film venisse concessa la visione senza limitazioni di età. “Tale divieto è motivato dalla particolare crudezza della vicenda che si svolge, in un clima di odio implacabile (…)  tutto ciò pone in essere uno spettacolo controindicato alla particolare sensibilità e alle specifiche esigenze educative dei minori di anni 18”, recita il verbale della commissione riunita per esaminare la prima edizione del film nel 1969. L’introduzione, nella seconda edizione del 1972, di  un maggior numero di scene con effetto distensivo –  lunghe cavalcate nelle praterie, panorami su panorami – e, soprattutto, di una piccola sequenza di compassione nella quale un anziano cura Django ferito, riuscirà a smorzare le preoccupazioni dei membri della commissione censura sulle possibili cattive influenze sui minori e il divieto verrà abbassato ai soli 14 anni. Solo i moltissimi tagli apportati alle scene di violenza – 24,39 metri complessivi – consentiranno all’edizione del 1997 di essere ammessa alla proiezione per tutti.

Curiosa si dimostra l’attenzione ai dettagli da parte della commissione di revisione cinematografica, talvolta quasi al limite dell’accanimento. A Duccio Tessari, regista di Una pistola per Ringo viene imposta, tra le altre, questa condizione per ottenere il nulla osta  senza limitazioni di età:  “Riduzione della sequenza in cui un bandito spara sui peones con un solo proiettile nel tamburo della pistola, con eliminazione dei colpi a vuoto meno uno”.

In 10.000 dollari per un massacro di Romolo Guerrieri è l’eccessivo entusiasmo per la nudità mostrato dal personaggio di Scarface ad essere censurato, oltre che – come quasi sempre – l’eccessivo indugiare sulla visione del sangue. 
Se fosse possibile scegliere un unico punto per sintetizzare l’intera storia della censura dello Spaghetti Western in Italia – si pensi anche ad altri titoli come …Se incontri Sartana prega per la tua morte di Parolini, o Vamos a matar, Compaňeros di  Sollima nel quale viene tagliata la scena di tortura su un animale – quello che sempre ricorre, ciò che viene sempre reputato assolutamente non-mostrabile, è la violenza non strumentale: va bene una rissa a bottigliate, non va bene soffermarsi con compiacimento sul dettaglio della bottiglia insanguinata. In altre parole, ad essere censurata è proprio quell’attitudine che ha preso poi il nome di estetizzazione della violenza, e che proprio con Tarantino ha avuto la sua esplosione nel mainstream.