La retrospettiva dedicata a Renato Castellani si chiude con Nella città l’inferno, prison movie italiano del 1959. La versione proiettata al Cinema Ritrovato rispecchia il montaggio voluto dal regista che si differenzia da quello proposto in televisione, dove la copia venne mutilata di  circa 10 minuti e la posizione di alcune scene fu invertita per rendere possibile un lieto fine. Il film comincia con l’ingresso in carcere di Lina (Giulietta Masina), racconta le vicende e i rapporti che s’instaurano tra le detenute e si focalizza in maniera specifica sul personaggio di Egle (Anna Magnani).

Castellani costruisce il suo film nel microcosmo del penitenziario, non ne esce mai,  ne filma la vita quotidiana e le dinamiche conflittuali. Inizialmente il film doveva essere composto da non professioniste, ma la produzione propose Anna Magnani e ,per il ruolo da co-primaria, Giulietta Masina. È stato detto che “è un film d’attrici più che d’autore”, le due più in vista nel panorama cinematografico italiano del tempo, entrambe reduci da ambiti premi internazionali si contendono la scena. Ma non c’è partita. Anna Magnani entra con un leggero ritardo rispetto alla rivale, ma la sua forza è dirompente, esplosiva sembra non stare nell’inquadratura, ha una personalità debordante che conferisce da sola spessore all’intero film. Masina è relegata a spalla probabilmente anche perché il confronto dei personaggi migra sul piano attoriale e personale: si dice che Anna Magnani prese in odio Giulietta e traspose questa antipatia sul set, rendendo potente e genuina l’istrionica interpretazione.

Questa superiorità, nonostante in gran parte sia dovuta alle qualità recitative dell’attrice stessa, è stata possibile anche grazie a una differente caratterizzazione e rappresentazione del personaggio. Egle è molto vicina alla personalità dell’interprete e Suso Cecchi D’Amico, molto amica della Magnani, scrisse battute che l’attrice avrebbe pronunciato nella realtà. Anche la fotografia rappresenta diversamente le due. Lina è ingenua e innocente al punto di partenza, veste di chiaro, si trova molto spesso a dividere l’inquadratura con altre figure e l’illuminazione riservatale è piuttosto anonima.

Egle indossa il nero, è furba, disillusa, con un carattere dominante, la sua natura richiede spesso il centro della scena e la luce su di lei è molto particolare, ha spesso il volto in ombra a sottolineare la sua ambiguità. Tra le due s’inserisce una terza figura, Marietta, giovane donna che trova l’amore grazie a Egle e riesce ad operare in lei un cambiamento radicale rendendola sensibile al proprio sentimento. Il percorso delle due comprimarie è inverso: Masina inizialmente è ingenua, timida, ma finisce per tornare in galera cambiata, tanto che nella colluttazione finale in cui Egle le strappa il vestito si scopre una sottoveste di colore nero, proprio come quella indossata dal personaggio interpretato dalla Magnani in principio.

È un film di donne, c’è poco spazio per il genere maschile, se non per la breve apparizione di Alberto Sordi che partecipò gratuitamente alla lavorazione. Il finale è amaro, Lina torna in prigione, Egle viene messa in isolamento, le porte della prigione si chiudono come a voler comunicare il destino ormai segnato di queste donne. Ma c’è un barlume di speranza, la notizia delle nozze di Marietta da fiducia nella possibilità di cambiamento.

Bellissima la retrospettiva sull’opera di un autore del cinema italiano spesso dimenticato, che però ha girato ottime pellicole e ottenuto non a caso grandi riconoscimenti internazionali.

Stefano Careddu