Se n’è andato a 92 anni Callisto Cosulich, decano e protagonista di una irripetibile stagione della critica cinematografica, nonché esponente di una cinefilia triestina e giuliana di grandissimo valore intellettuale. Cinefilia Ritrovata lo ricorda non solo in quanto maestro verso cui si è provato il massimo rispetto, ma anche come esempio pluri-decennale di curiosità culturale, che lo ha portato a vivere l’esperienza critica in molti modi diversi compresa quella dell’animazione culturale. Provarne a raccontare la vita è complesso: come ufficiale di complemento in Marina, tra il ‘43 e il ‘45 curava proiezioni a bordo di un incrociatore; a Trieste, con Tullio Kezich, organizzava il Circolo della cultura e delle arti; critico per “Il giornale di Trieste”, “Cinema”, “Bianco e nero”, “Cinemasessanta”, sceneggiatore imprevedibile di Terrore nello spazio di Mario Bava, autore di Hollywood Settanta e molti altri testi e molto altro ancora. Ma per capire chi fosse in tutte le sue sfaccettature Callisto Cosulich, è importante leggere due volumi recenti. Il primo, del 2005, è Il cinema secondo Cosulich. Scritti di Callisto Cosulich sul «Giornale di Trieste» (1948-1953) curato da Roy Menarini, per Transmedia, e il secondo è Il coraggio della cinefilia. Scrittura e impegno nell’opera di Callisto Cosulich curato da Elisa Grando e Massimiliano Spanu per Eut (Trieste). Da quest’ultimo traiamo un estratto, anch’esso scritto da Roy Menarini, sulla sua attività degli esordi, così importante per mettere a fuoco il resto della sua carriera critica e giornalistica.

 

LA COSTRUZIONE DEL CANONE

Cosulich al Giornale di Trieste

 

 

Non sempre, nella vita di un critico, si possono scegliere i momenti preferiti della storia del cinema nei quali esercitare la professione. Nella carriera di Callisto Cosulich – e di quella dei suoi celebri compagni di strada, di pari generazione – per esempio è capitato che un grande periodo come quello che si estende dal 1948 al 1953, dal neorealismo maturo alla nascita di un nuovo cinema, sia giunto nella vita del critico triestino quasi all’inizio. Pensate a un giovane critico di oggi, alle prese con qualche blockbuster hollywoodiano, con quel che resta del cinema d’autore, e con un cinema italiano dove i registi tricolori chiamati a concorrere per gli Oscar sono Cristina Comencini, Giuseppe Tornatore, Paolo Virzì. E confrontateli – absit inuria – con i film che il giovane Cosulich era chiamato a recensire in quegli anni sulle colonne del “Giornale di Trieste”, da Ladri di bicilette a Germania anno zero da Giorno di festa a Giungla d’asfalto. E aggiungiamo, poi, che Cosulich recensiva non solamente i film di prima visione ma anche quelli proiettati al Circolo della Cultura e delle Arti, che egli stesso aveva avviato a Trieste nel 1946. In questa sede, si recuperava la storia del cinema, i classici, i muti, i non distribuiti, i sovietici, gli est europei, in pratica una ricca filmografia degna di quel che si chiama un “cineclub”.

Insomma, invidie a parte, si fa strada anche uno stupore misto a soggezione, se immaginiamo il Cosulich di oltre sessant’anni fa impegnato su cotanto ben di Dio. Ora, sugli scritti di quel periodo esiste un’antologia che chi scrive ha immeritatamente raccolto[1], e dunque non vale la pena – né vi sarebbe lo spazio per – ripercorrere ogni singolo contributo critico alla filmografia di quegli anni. Al contrario, è importante tornare su quella fase della pratica critica di Cosulich per almeno due motivi. Il primo è squisitamente cinefilo, e consiste nel mettere in luce la bontà della scrittura e delle griglie critiche del maestro Callisto. L’altra è, per così dire, storica, ovvero la possibilità di leggere in questo corpus uno stile in fieri, che poi si è via via concretizzato, diventando più esatto, più specifico, il che non impedisce a queste recensioni di possedere un sapore tutto loro, di produrre un piacere della lettura che i lettori di allora ben ricordano e testimoniano con entusiasmo. Leggiamo le righe scritte dall’avvocato Senatore Nereo Battello a questo proposito: “Per chi allora, tra Trieste e Gorizia (a Udine, dove dal 1946 si stampava ‘Il Messaggero Veneto’, c’era già l’Italia) si interessava di cinema – ormai esaurito l’esaltante immediato dopoguerra, quando si potettero, per breve tempo, leggere riviste come ‘Film d’Oggi’, di Puccini-Visconti-De Santis e ‘Cinetempo’ di Casiraghi e Guerrasio – le recensioni di Cosulich furono momenti essenziali di ‘formazione’ oltre che di ‘informazione’”[2].

Era ancora l’epoca, infatti, nella quale il rapporto tra critico e lettore riusciva a stabilire una confidenza assai più che momentanea o effimera, né legata al destino del singolo film, quanto piuttosto a instaurare un dialogo più profondo, fatto di fiducia nel giudizio dell’esperto e di dimostrazione della sua competenza – caratteristica tuttora intatta del rapporto Cosulich-lettore anche – per esempio – sul “Piccolo” e su Left negli anni Duemila. In un recente libro di Alberto Pezzotta[3] – forse il volume più lucido nell’analizzare caratteristiche, identità e limiti della critica cinematografica – l’autore insiste molto sui criteri di pertinenza della critica e sull’argomentazione che permette di persuadere il lettore delle proprie opinioni. Ecco, nelle recensioni di Cosulich, fin da subito, si capisce che, ben prima che studiosi e accademici scomponessero il mestiere della critica in termini metodologici[4] , questi sani principi venivano applicati.

Ed è sempre questo, forse, il motivo per il quale oggi, in epoca che si definisce “post-teorica” (ovvero in un epoca in cui gli “ismi” degli anni Settanta e Ottanta sembrano essere stati superati), si ritorna alla generazione di Cosulich, di Kezich, di Giraldi e di altri (per citare alcuni tra coloro che Lo Schermo Triestino ha omaggiato in questi anni) come a modelli di buon senso critico e scrittura ragionevole, anche da parte di coloro che militavano nella “giovane critica” e vedevano i titolari di rubriche sui grandi quotidiani come il fumo negli occhi.

Il “Giornale di Trieste” nasceva come noto nella città giuliana governata dagli Anglo-Americani e lì vi nasceva proprio la Sezione Cinema del Circolo della Cultura e delle Arti, fortemente voluta da Cosulich e Kezich. Questa, a recuperare i materiali rimasti e ad ascoltare protagonisti e spettatori d’epoca, era non solo un’occasione di recupero di pellicole altrimenti introvabili o irrecuperabili, ma anche un luogo attivo di critica e dibattito, non del tutto lontana dalle coeve esperienze francesi della cinefilia pre-Cahiers, sia pure in un contesto diverso e probabilmente più drammatico per le mille tensioni che circolavano a Trieste nel dopoguerra. A Trieste, Cosulich – che aveva prestato servizio su un incrociatore come ufficiale – cominciò a scrivere appunto su “Il Giornale di Trieste”, che era stato “Il Piccolo” fino al 1945, e che poi avrebbe ripreso come noto questo nome dal 1954 in poi.

Dunque, in tale contesto, che tipo di critico era Callisto Cosulich? Possiamo ben dire: un critico preparato, anzitutto. Un critico colto, di letture ampie, e – dato oggi purtroppo raro – di cultura non solo cinematografica. L’analogia letteraria, l’allusione musicale, il rimando alla storia del teatro, la precisione dei riferimenti ne fanno un solidissimo recensore, fin da subito. Se interessano i giudizi sui capolavori incontrati per strada e visti a caldo, per la prima volta, non ancora canonizzati da storie del cinema e aule universitarie, non c’è che l’imbarazzo della scelta. Di La signora di Shanghai scriveva (19 settembre 1948)[5]

 

“Nel caso specifico, Welles s’è fatto più umile, non s’è proposto fini più grandi di lui, si è costruito un semplice soggetto giallo. Forse per queste ragioni La signora di Shanghai ci sembra il suo film più riuscito, dove le sue trovate non devono incappare nei passaggi obbligati della poesia, dei grandi temi, delle analisi profonde, dei messaggi sociali. E di trovate brillanti il film è zeppo, come quella simbolica dell’appuntamento all’acquario con quei pesci enormi, mostruosi sullo sfondo e tutto il finale nel Crazy Horse, che rinnova l’efficacia della scenografia cubista, cara al cinema tedesco dell’altro dopoguerra”.

 

Di Germania anno zero (12 marzo 1949)[6]

 

Sarà bene ricordare che Rossellini stesso considera Germania anno zero un film freddo come una lastra di vetro, la documentazione cronistica di una certa realtà, che è quella arida, disperata del dopoguerra tedesco, con la sua fame, le sue perversioni, i suoi delitti. Ognuno è legato alla realtà che deve narrare e non si poteva pretendere che Rossellini ci consegnasse una documentazione pittoresca, suggestiva del dopoguerra tedesco…

 

Di Ladri di biciclette (13 febbraio 1949)[7]

 

“Ladri di biciclette conclude un’annata particolarmente felice della cinematografia italiana. A conti fatti, nessuno al mondo può vantare di aver dato in un anno tre film del calibro di Germania anno zero, La terra trema, Ladri di biciclette. Il cinema italiano, dunque, a due anni di distanza dalla sua prima grande affermazione (Roma città aperta, Sciuscià e Paisà), riconquista il suo netto predominio nel mondo e lo riconquista in modo più solido del precedente, perché non legato ad una particolare contingenza storica: oggi la parola “dopoguerra” non ha più senso; il nostro film vince perché esprime le varie personalità di un gruppo di registi creatori, che tutto il mondo di invidia”.

 

Pare di leggere un manuale di storia del cinema, salvo che Cosulich commentava “in diretta” gli avvenimenti e dunque era chiamato a pesare culturalmente ed esteticamente i film che vedeva, in tal senso costruendo egli stesso il canone che si sarebbe poi – giustamente – imposto nella storia. Già maturo e capace di articolare giudizi anche severi, Cosulich è tipo da ammettere anche gli errori o i mutamenti di giudizio. Va ricordato, per esempio, il caso di Fra le tue braccia, film di Lubitsch del ‘48 di cui scrive, il 27 luglio dello stesso anno[8]

 

“È l’ultimo film che Lubitsch riuscì a completare prima della sua morte. Ernst Lubitsch è uno dei pochi registi conosciuti dal pubblico come un attore famoso, come una “diva”. Il perché di questa popolarità non è semplicemente spiegabile; meno ancora lo potremmo giustificare. Sia detto, senza tema di parere grossolani, senza voler essere dei convenzionali oratori funebri, che Lubitsch mai potrà assidersi tra i registi creatori”.

 

Il 1 novembre 1949, parlando di Il cielo può attendere, diretto dal medesimo regista, egli riconsidera le proprie parole scrivendo[9]

 

“Proprio su queste colonne, in occasione della proiezione di uno dei suoi ultimi film, Fra le sua braccia, ci eravamo lasciati andare a parole piuttosto dure su Ernst Lubitsch, il famoso regista da poco scomparso. Al solito, i giudizi immediati hanno bisogno di correzioni: ce ne offre il destro questo delizioso Il cielo può attendere, che vuol essere un po’ il testamento spirituale del regista tedesco, la giustificazione della sua “Weltanschaung”.”

 

Inoltre – come si nota bene nella lunga vicinanza di Cosulich ai generi cinematografici meno nobili (basti ricordare la sua sceneggiatura di Terrore nello spazio di Mario Bava) – egli si era da subito dimostrato un buongustaio del cinema di genere americano. Non si vuole qui forzare la mano e trovare ulteriori connessioni con la cinefilia “Cahiers” (davvero estranea al modo di pensare, assai concreto, di quella generazione critica), tuttavia era del tutto operativa una linea critica più che disposta a riconoscere e valutare come artistiche anche pellicole artigianali, hollywoodiane, medie, a fianco di quelle sovietiche, degli autori o del neorealismo e post-neorealismo. Qualche esempio: la difesa di un film apparentemente minore come Il molto onorevole Mister Pulham di King Vidor (5 aprile 1949)[10]

 

“Sapevamo che il Pulham era un film riuscito, ma che esso si potesse definire un capolavoro, questo non lo sospettavamo. Come non sospettavamo un Vidor psicologo e psicologo della forza dell’Autant-Lara di Evasione e di Il diavolo in corpo, narratore discreto come il David Lean di Breve incontro, scavatore in profondità come il Renoir di La chienne e L’angelo del male. Sono confronti grossi, lo ammettiamo, ma il film non li teme, anzi li vuole”.

 

Non fosse per la presenza di Claude Autant-Lara nella lista dei grandi registi nominati da Cosulich, sembrerebbe un articolo di Truffaut, con tanto di politique des auteurs. Qui l’autore – della recensione, s’intende – è perfettamente in grado di distinguere meriti artistici da forme produttive e di estrarre il film dalla sua ricezione più triviale (cinema commerciale americano) per ricollocarlo all’interno di proposte più artistiche e impegnate del cinema di matrice europea. Su Odio implacabile (3 maggio 1949), Cosulich scrive[11]

 

“Pagina di “America amara” attualizzata nel suo ultimo aspetto (…), il film di Edward Dmytryk è fatto alla buona e alla svelta, non ambisce all’appellativo di “psicologico”, però possiede un vigore narrativo che ha dello sbalorditivo: diviene pertanto un grido di allarme. È uno di quei film che non riceveranno mai un Oscar, uno di quei film però atti a farci ricordare che l’America ha ancora la sua parola da dire in fatto di cinematografo”.

 

Sono gli anni in cui Cosulich, tra una recensione e l’altra, tenta anche (senza appesantire troppo i suoi testi) di trarre qualche bilancio in seno alle cinematografie di cui si occupa. Per esempio, una recensione di A sangue freddo di Robert Rossen[12] apre una riflessione interessantissima e lungimirante su una nuova schiera di cineasti hollywoodiani (oltre a Rossen, lo stesso Dmytryk, Huston, Robson, Wise) dediti a un cinema brusco, realista, ruvido e diverso da quello tradizionale degli studios – siamo pur sempre alla fine degli anni Quaranta. In una divertita recensione di Framkenstein contro l’uomo lupo[13], Cosulich traccia la genealogia del romanzo gotico al cinema e delle sue derive sempre più discutibili. Gli esempi potrebbero continuare – Cosulich è anche un ottimo narratore “da festival”, un inviato sapido e pungente, un recensore a caldo di quelli di cui ci si può fidare il più delle volte, e di cui si sa che non si farà mai prendere da entusiasmi poco meditati o nervosismi egotistici – ma lo spazio non consentirebbe un’analisi più approfondita.

Diciamo, in conclusione, che il corpus di articoli e la militanza sul “Giornale di Trieste” (in particolar modo il periodo in cui il critico si trovava nella città giuliana, cui va aggiunto il periodo di collaborazione mantenuta anche da Roma, dove si era trasferito) va considerato una preziosa opera a sé. Sebbene non possa costituire un elemento di discontinuità all’interno della lunghissima carriera di giornalista e commentatore cinematografico di Cosulich (portata avanti con gusto e coerenza), di certo la si deve considerare come un’avventura intellettuale significativa in un periodo storico – la Trieste degli Alleati – davvero unico e pieno di stimoli contraddittori, persino controversi. La critica cinematografica, che non è mai (proprio mai) avulsa dal clima sociale e culturale che respira intorno a sé, ha trovato in Callisto Cosulich, lungo quegli anni, un rappresentante di rango.

 

 

[1] Callisto Cosulich, Il cinema secondo Cosulich. Scritti di Callisto Cosulich sul “Giornale di Trieste” (1948-1953), a cura di Roy Menarini, Transmedia, Gorizia, 2005.

[2] Nereo Battello, “Dovuto a Callisto Cosulich”, in Callisto Cosulich, ivi, p. 10.

[3] Alberto Pezzotta, La critica cinematografica, Carocci, Roma, 2007.

[4] Si vedano anche i due libri di Claudio Bisoni, Il linguaggio della critica cinematografica, Revolver Libri, Bologna, 2003 e La critica cinematografica. Metodo storia e scrittura, Archetipo Libri, Bologna, 2006.

[5] Callisto Cosulich, cit., p. 32.

[6] Ivi, p. 64.

[7] Ivi, p. 59.

[8] Ivi, p. 28.

[9] Ivi, p. 98.

[10] Ivi, p. 68.

[11] Ivi, p. 71.

[12] Ivi, p. 102.

[13] Ivi, p. 108.