Premio della giuria al Festival di Cannes 2015, finalmente nelle sale italiane e anche al Lumière, ecco The Lobster. In un futuro prossimo non meglio identificato non è consentito dalla legge rimanere single dopo una certa età. Chiunque si ritrovi senza compagno/a dopo la data stabilita viene trasferito a forza in un hotel, nel quale avrà a disposizione un soggiorno di 45 giorni per trovare l’anima gemella. Tutte le persone che non riusciranno in questo compito saranno trasformate in un animale a loro scelta. David, un architetto sulla quarantina interpretato da Colin Farrell, si ritrova suo malgrado nell’hotel, dopo essere stato lasciato dalla moglie. Troverà l’amore nell’unico posto in cui non è ammesso farlo: il bosco dove vivono i solitari, ossia i “ribelli” che hanno scelto di rimanere single.
Il terzo lungometraggio di Yorgos Lanthimos vanta una trama estremamente originale, che porta il film a situarsi in una zona di confine tra la fantascienza, il dramma e il thriller, senza poter essere classificato in un genere preciso. Lo scenario costruito dal regista è pervaso di un’atmosfera sinistra e inquietante, dove tutto “stona” e niente è come dovrebbe essere. Le relazioni tra le persone, le loro reazioni e pulsioni sono condizionate da una società che ha privato gli esseri umani della loro umanità.
Estremizzando alcuni aspetti della cultura occidentale contemporanea Lanthiamos ci prospetta una società emotivamente alienata, in cui la coercizione ai danni dell’uomo è totale. Da un lato infatti abbiamo l’hotel, in cui non è permesso stare da soli, dall’altro invece abbiamo il bosco, in cui non è permesso innamorarsi. In nessun caso si è liberi: tutto è finzione, non c’è niente di vero in quello che vediamo e sentiamo. Le persone dicono cose che non pensano e simulano sentimenti che non provano, il tutto pur di non essere trasformati in animali e rischiare quindi di morire prematuramente. Salvare sé stessi diventa quindi la pulsione più profonda che anima l’uomo e lo spinge a compiere azioni sempre venate di violenza.
La violenza è infatti uno dei concetti dominanti del film, sia essa psicologica o fisica, la sua presenza è costante e palpabile, calata in un contesto grottesco che a tratti trasuda suggestioni lynchane (vedi la sequenza del ballo serale, con i direttori dell’hotel che si esibiscono in un improbabile esibizione canora o il ballo dei solitari nel bosco). L’incalzante motivo musicale che ripercorre l’intero film e la fotografia dai toni freddi e desaturati, contribuiscono a creare un’atmosfera di perenne inquietudine, adatta per un mondo in cui la felicità è totalmente assente e gli uomini sembrano automi.
In un’intervista il regista ha dichiarato: “Alla base della storia c’è la mia insofferenza per la società che, dominata da regole ossessive, diventa sempre più conservatrice”.
Ed è proprio la violenza delle convenzioni sociali in The Lobster a rendere l’uomo incapace di sentimenti sinceri, relegandolo ad una vita in cui non si sceglie ciò che è meglio per sé stessi, ma ci si accontenta del “meno peggio”.
Barbara Monti