Emiliano Morreale, critico cinematografico, professore all’Università di Torino e, da più di un anno Conservatore della Cineteca Nazionale ha partecipato alla XXVIII edizione de “Il Cinema Ritrovato” come curatore della retrospettiva “Riccardo Freda: un maestro del cinema popolare”. Gli abbiamo posto qualche domanda.
Perché, secondo lei, Freda, pur essendo un artista di così grande successo, non è stato riconosciuto dai suoi contemporanei, tanto da dover essere riscoperto dopo?
Ci sono almeno un paio di momenti diversi nella carriera di Freda: c’è quella di maggior successo economico, che risale all’immediato dopo guerra, in cui, pur non avendo riconoscimento da parte della critica cinematografica, acquisisce una discreta popolarità. È quando passa a generi di film popolare italiano di importazione a generi horror di fantascienza con stampo gotico come I vampiri che la gente non lo riconosce, e lui stesso si sente obbligato a usare uno pseudonimo. Ancora prima che lui cambi nome, vorrei sottolineare che va a lavorare in Francia, si dedica a fare questo stesso tipo di cinema popolare come Giulietta e Romeo, Le due orfanelle, i grandi classici della letteratura in Francia, appendice dall’eccessiva commozione , in quanto questo genere viene in qualche modo riletto in chiave più curiosa. Tuttavia quel tipo di cinema non trova più spazio in Italia, ed è per questo che Freda , come altri suoi contemporanei, si trova tagliato fuori da un mercato che grandiosamente aveva dominato.
Qual è la sua opinione riguardo la digitalizzazione e il restauro dei film per la loro conservazione?
Premessa la vastità dell’argomento, credo sia inevitabile che i restauri vengano fatti in digitale per diversi motivi, ad esempio perché se restauro un film in 35 millimetri, a parte il Cinema Ritrovato di Bologna, lo posso mostrare in pochi luoghi. Mentre se volessi farlo circolare, rimandarlo in sala, mandarlo ai festival il restauro verrebbe richiesto in digitale. Il digitale poi permette di fare una serie di lavorazioni, in maniera anche più rapida, più semplice del restauro analogico. Va ricordato, tuttavia, che il miglior supporto non è il digitale, bensì la pellicola. Inoltre, il passare da un supporto ad un altro in maniera così radicale avanza delle questioni anche teoriche: l’ideale del restauro digitale dovrebbe essere di assomigliare alla pellicola e non di essere digitale, “l’ideale di un restauro digitale dovrebbe essere quello di essere un meraviglioso 35 millimetri”, citando Gian Luca Farinelli. La questione non riguarda che cosa si può fare con il digitale, il problema è cosa bisogna evitare di fare con il digitale.
In merito al suo ruolo di Conservatore della cineteca nazionale e al concetto di “conservare e diffondere” per lei ritenuto importante, ha già pensato a qualche progetto pratico per diffondere il patrimonio delle nostre cineteche?
Sicuramente la diffusione è la cosa fondamentale, archiviare le opere cinematografiche serve a renderle accessibili. Se venissero conservate, anche meravigliosamente, delle copie a cui nessuno è dato accesso, è come se non esistessero , una maniera sbagliata di fare arte culturale e storia del cinema. La diffusione è compito delle cineteche, ma non è così semplice, nel senso che la differenza tra le cineteche e chi è proprietario delle proprie immagini è che le cineteche hanno in deposito dei film che spesso non sono loro: sono proprietarie di film di altri proprietari. Ogni volta bisogna fare accordi con ogni singolo avente diritto per diffondere i singoli film, il che risulta in un operazione alquanto complessa. La differenza fra la Cineteca Nazionale e l’Istituto Luce è proprio questa: l’Istituto Luce possiede gran parte della merce, mentre i film depositati in Cineteca Nazionale perlopiù non sono proprietà pubblica.
A cura di Francesca Bernardi e Francesca Alberoni