Silence prosegue la sua vita in prima visione, e offre ai nostri collaboratori la possibilità di leggere da vari punti di vista quest’opera personale e profonda di Martin Scorsese, al centro di un dibattito critico e filosofico di grande spessore.

 

Martin Scorsese torna a occuparsi di fede trasponendo per il grande schermo il romanzo Silenzio di Shūsaku Endō (1966) e trasformandolo in un’occasione per fare cinema spirituale, sulla scia di Bresson (Il diario di un curato di campagna), di Pasolini (Il Vangelo secondo Matteo) e di Dryer (Ordet). Se il tema è centrale sul piano narrativo, dove si contrappongono due religioni e due culture e dove l’interiorità di Rodrigues esterna tutti i dubbi, le gioie e la disperazione che possono scaturire dalla fede, è a livello della messa in scena che Scorsese realizza un’opera d’arte di altissimo valore.

Sul piano sonoro, in questa narrazione condotta prevalentemente dalla voce fuori campo di Rodrigues, il silenzio che egli esperisce come assenza della voce di Dio ci viene riproposto in tutta la sua forza da momenti di totale silenzio, momenti in cui Rodrigues pare trascendere dal mondo terreno, attimi in cui il gesuita vede nella propria immagine riflessa in acqua il volto di Gesù con la corona di spine, in un folle cortocircuito di delirio religioso, superbo orgoglio e reminiscenze di miti pre-cristiani. Rogrigues, moderno Narciso, è convinto di potersi paragonare a Gesù ma è forse solo schiavo della propria ottusa visione del mondo, come nota Padre Ferreira nel tentativo di aprirgli gli occhi sulla realtà del Giappone e sul loro ruolo nella Storia.

L’opposta lettura degli eventi è infatti costantemente mostrata allo spettatore: se gli straordinari personaggi dell’interprete e dell’inquisitore espongono lo stato delle cose dal loro punto di vista, secondo ragionamenti che portano a considerare i missionari come invasori e colonizzatori culturali, la sentita fede dei contadini e la reale consolazione che questi in essa trovano per affrontare le terribili persecuzioni costituiscono per i gesuiti una conferma del loro agire a fin di bene. E’ forse proprio nella colonna sonora, composta da Kim Allen Kluge & Kathryn Kluge ma comprendente anche accenni alla tradizione gregoriana, che l’intrecciarsi di suoni della natura (animali, fronde, acqua, fuoco) a strumenti a percussione e (raramente) al suono della voce umana si manifesta come un tentativo di conciliazione tra la spiritualità cristiana e quella buddhista.

L’identificazione dello spettatore con Rodrigues – rappresentazione di ogni uomo di fede – si estende anche al piano visivo. Come i gesuiti non riescono a “vedere” veramente l’altro, fallendo nel portare il Cristianesimo in Giappone perché non capiscono che quel Paese poggia su basi culturali radicalmente differenti da quelle occidentali, così la regia di Scorsese ci immerge in questa assenza di risposte e di comprensione attraverso inquadrature la cui profondità di campo sarebbe assai ampia se qualche elemento (nuche, alberi, edifici, la nebbia) non ostacolasse la visuale impedendo di proiettare lo sguardo oltre. Solo alla fine del film siamo in grado di vedere tutto, anche ciò che è invisibile agli occhi. Magia e potere del cinema. Si potrebbe pensare che questa scena non sia necessaria, che costituisca un’eccessiva volontà di mostrare. Ma forse è proprio questo il senso del film, che si applica anche alle storie di Padre Ferreira e poi di padre Rodrigues stesso: la Verità è lì, bisogna essere capaci di vederla.

Scorsese dunque non ci parla soltanto dell’aspetto terreno della natura umana, con la sua violenza intollerabile, ma anche di quello spirituale, che si manifesta nell’atavico bisogno dell’essere umano di ricercare un’entità superiore (dentro o fuori di sé) e nell’incessante ricerca di una risposta alle grandi domande esistenziali.

Alessandro Guatti – Associazione culturale Leitmovie