Ancora in sala La grande illusione di Jean Renoir, il capolavoro pacifista riproposto nell’anno del centenario della Prima guerra mondiale, che scoppiava il 28 luglio del 1914. Visto che la tematica bellica è anche al centro di numerosi videogiochi, vale la pena un approfondimento. Come noto, nel videogioco ci vuole un attimo per alimentare le classiche polemiche sui rischi della violenza digitale. Tuttavia il salto tra guerra e violenza, per quanto servito su un piatto d’argento, tende spesso a lasciar fuori una domanda tanto semplice quanto complessa da indagare: come viene rappresentata la violenza? Perché, diciamolo, molto dipende dal come.

Prendiamo Spec Ops: The Line, sparatutto realizzato da Yager Entertainment nel 2012. In un interessante volume intitolato “Killing Is Harmless: A Critical Reading of Spec Ops: The Line”, Brendan Keogh mette nero su bianco alcune riflessioni che, almeno in ambito videoludico, non sono così scontate. L’autore parte, guarda caso, citando il cinema, e in particolare le parole del critico Michael Abbott. Secondo Abbott, la maturazione del genere western è andata di pari passo con la capacità di registi come Leone, Peckinpah ed Eastwood di riflettere sul genere stesso, di porsi domande sulle modalità con cui la violenza veniva rappresentata. Un processo analogo sta accadendo nell’ambito videoludico: sempre più spesso i giochi riflettono su se stessi, metagiocando col genere di appartenenza. Di fronte a sparatutto che pongono l’utente in una posizione acritica rispetto alle azioni compiute sullo schermo, esistono titoli come Spec Ops: The Line che invitano il gioco, e il giocatore, a guardarsi allo specchio.

Quel che emerge – in un titolo che non nasconde le sue fonti di ispirazione (Cuore di tenebra) e i suoi rimandi (Apocalypse Now) – è una critica arguta agli sparatutto che funziona ancor meglio perché lanciata attraverso uno sparatutto. Non un giudizio di valore, sia chiaro, ma un disvelamento dei meccanismi che stanno alla base del genere. Fino a che punto il giocatore è padrone di quel che fa? E anche quando lo è, ha davvero consapevolezza di quel che sta compiendo? Comprende la portata delle proprie azioni? Spec Ops: The Line rivela il senso di colpa, mette a nudo le menzogne che ci raccontiamo per alleviare i disagi della nostra coscienza. Quando l’illusione svanisce, bisogna fare i conti con la realtà. Accade al protagonista del titolo, e per esteso anche a noi.

Verso la fine dell’avventura, nota Keogh, appare sullo schermo una frase: “To kill for yourself is murder. To kill for your government is heroic. To kill for entertainment is harmless”. Se da una parte si tratta del subconscio del protagonista che cerca di giustificare le proprie scelte, dall’altra porta a riflettere sulla natura stessa del piacere che scaturisce dall’atto violento. I giocatori non stanno forse anche loro uccidendo, seppur virtualmente? Se nel dibattito classico ci sono due posizioni opposte – chi condanna a prescindere la violenza rappresentata e interpretata e chi sottolinea la consapevolezza del giocatore tra virtuale e reale –  Spec Ops: The Line si pone in una posizione mediana. Si sta sì giocando, ma questo non significa mettere da parte il proprio senso critico.