Concepire ex novo la terza dimensione per un classico, specie se il film in questione risale agli albori del technicolor, è sempre una scommessa azzardata. Ma nel caso de Il Mago di Oz, ci si sente di dire, decisamente vinta: quella che sarebbe potuta risultare chirurgia del tutto superflua si rivela essere una rivitalizzazione del film alla sua radice. La stereoscopia regala ai piani prospettici un’autentica sensazione di tangibilità, che giova in particolare al prologo in seppia. Ora è decisamente più vivida l’impressione di immergersi nella sterminata vastità delle campagne del Kansas; i fili di paglia, le carriole, gli oggetti muti e semplici che accompagnano la monotona vita dei fattori, acquistano una dignità quasi creaturale; soprattutto, la sequenza in cui l’uragano trasporta Dorothy a Oz si concede al sublime, mentre tra l’estatico e l’orrorifico ci si sorprende genuinamente angosciati per le sorti di Judy Garland.
Non è da meno la geniale transizione verso la policromia che segue l’arrivo a Oz. I colori tornano a nuova vita grazie al restauro – smaglianti, di una psichedelìa ai limiti di un kitsch, invero, piuttosto autoironico – se non del grottesco: la coreografia dei Munchkin è tutta un programma. L’impiego della terza dimensione esalta la plasticità di un labirinto di scenografie dal sapore deliberatamente posticcio, che conferiscono un’aura sottilmente inquietante all’atmosfera del film.
Il Mago di Oz è, dopotutto, il sogno di una bambina inascoltata dagli adulti. Nonché un capolavoro, proprio nel suo essere psicanalitico – senza sembrarlo. “Tutto ciò che è profondo ama la maschera”, diceva Nietzsche; e il sogno dissimula il proprio valore di verità nel mostrarsi sfacciatamente per ciò che è: finzione. Il linguaggio onirico procede per archetipi gravidi di significato – dall’oggetto della ricerca (cervello, cuore, coraggio) alle scarpette rosse di Dorothy – significato che passa pressoché inosservato nel corso della visione, proprio in virtù della corrispondenza letterale con il simbolo. Nel sogno riemerge così, in tutta la sua pregnanza, il potere evocativo della fiaba – il perturbante: das Unheimliche, in termini freudiani, laddove Heim pertiene alla sfera semantica della casa e del focolare.
Lontano da casa: donde la profonda, sconcertante ambivalenza del sogno – che è anche proiezione del desiderio di alterità, quel qualcosa di misterioso e ineffabile che tutti i bambini intuiscono e segretamente anelano. Sogno che inizia come consolazione davanti al vuoto di una banalità di giorno in giorno più incolore, e si scopre anamnesi platonica: una genuina forma di conoscenza. In tal senso, l’intramontabile sequenza di Over The Rainbow è davvero il ponte fra due mondi. Conduce oltre l’arcobaleno la gioia inconsapevole della sensibilità magica: la sensazione di potere tutto. La magia presuppone una radicale comunione con l’esistenza, e tuttavia non ne riduce la complessità. La negazione dell’irreparabile è, dopo tutto, il prezzo della magia: la rinuncia alla stessa realtà, ovvero la nostalgia di casa.
“There’s no place like home”, dirà Dorothy a fine film, e forse, come afferma Glinda, non l’avrebbe compreso senza viaggiare lungo quel Sentiero dei Mattoni Gialli. Nel viaggio, e non nella meta, risiede la saggezza – e inventare storie, nella veglia e nel sogno, è un tentativo umano di conferire un ordine alla realtà; un tentativo di attribuire un significato al fatto di esistere, a partire dal percorso del proprio Sé.
Thi Hòa Evangelisti