C’era una volta un film di cui poi rimase un’unica copia nel mondo: Ragbar (1971), l’opera prima del regista iraniano Bahrām Beyzai. Nonostante sia stato premiato con i massimi riconoscimenti alla prima edizione del Tehran International Film Festival (1972) e alla quinta edizione dell’Iranian National Film Festival (1973) e sia ritenuto ancora oggi uno dei film più popolari del cinema iraniano, Ragbar ha conosciuto nel tempo un destino iniquo, segnato dalla confisca prima e dalla distruzione poi delle copie negative esistenti, per mano del governo persiano di epoca pre-rivoluzionaria. E anche successivamente, nel decennio di Khomeyni, Bahrām Beyzai non ha mai trovato effettiva facilitazione nonostante la sua riconosciuta considerazione autoriale. Reo -per stessa ammissione del regista- di aver sempre tenuto le distanze dalla comune morale dei partiti politici, rendendosi di fatto volontariamente inaccessibile al gusto popolare.

Il restauro di Ragbar, proposto in anteprima al 27° Festival del Cinema Ritrovato all’interno della sezione Cinemalibero, è stato realizzato a partire dall’unica copia (positiva in 35mm e con permanenti sottotitoli inglesi) sopravvissuta nelle mani dello stesso Beyzai. Consegnata dal regista alla World Cinema Foundation di Martin Scorsese nel 2011 e lavorata presso i laboratori bolognesi de L’Immagine Ritrovata, l’ultima copia esistente ha richiesto un impegno di oltre 1500 ore di dedizione, siccome i pesanti danneggiamenti dovuti ai graffi e alle perforazioni e agli strappi alle giunte. «Sono molto fiero -ha dichiarato Scorsese- del restauro di questo film, saggio e bellissimo […]. E addolora pensare che quest’opera straordinaria, un tempo così popolare in Iran, abbia rischiato di scomparire per sempre».

In Ragbar (letteralmente “Il nubifragio”) è centrale la progressiva pittura dell’amore tra Hekmati, colto insegnante appena trasferitosi a Teheran, e Atefeh, modesta sarta sorella di un suo allievo, la cui mano è però destinata al macellaio locale. La crescente stima degli allievi nei confronti dell’insegnante irrita il direttore dell’istituto scolastico al punto da far trasferire Hekmati, lasciando ad Atefeh la responsabilità dell’insoluto destino della relazione. Il pretesto narrativo diviene -come sempre nel migliori dei casi- prospettiva privilegiata da cui far affiorare l’allegoria e la suggestione, politiche e civili. E difatti tocca la grazia di una favola antica, ereditata per linea diretta dalle suggestioni della cultura persiana. Figlio di Zokā’i Beyzāi e nipote di Adib Ali Beyzāi -i più influenti poeti persiani del Novecento- Beyzai imprime al suo esordio cinematografico anche le eco degli studi teatrali intrapresi in gioventù, Ionesco e Beckett su tutti, visibili non solo negli espliciti intermezzi metatestuali ambientati nella sala ristrutturata da Hekmati e adibita a teatro. Gli allievi della scuola elementare sono comprimari assoluti degli equivoci e artefici squisiti della sorte dei due innamorati, e i persistenti primi piani sui loro volti veicolano l’emozionante parabola della visione.

Beyzai, oggi 74enne residente in California, ha solcato la tradizione del neorealismo italiano per inaugurare la Iranian New Wave, la scuola iraniana della fine degli anni ’60. Nonostante Ragbar sia un capolavoro riconosciuto e per fortuna ritrovato e restaurato, Bashu, the Little Stranger (1986) rimane -per chi scrive- il suo lavoro più commovente, non a caso dedicato all’infanzia. E quindi al futuro del cinema.

Alberto Spadafora