La La Land è un film su cui torneremo a lungo, per gli entusiasmi che suscita, per gli spunti critici che stimola e, perché no, per le divisioni che talvolta insinua tra i cinefili, anche dentro la nostra redazione. Procediamo oggi con una lettura decisamente positiva del film…
Due artisti: Mia, una malinconica e aspirante attrice e Sebastian, un anacronistico pianista squattrinato, sono costretti a confrontare se stessi e le proprie aspirazioni con l’intransigenza di un’arte che ormai è divenuta industria. Un puro e irrazionale balzo dell’immaginazione oltre i confini del vero è ciò da cui, malgrado ciò, sono colti i loro animi nel loro continuo perdersi e ritrovarsi nei meravigliosi anfratti della città degli angeli.
Damien Chazelle vivifica l’invisibile materia di questi sogni nella ridefinizione di un cinema la cui bellezza rifulgeva negli occhi ancora increduli di chi si faceva spazio tra le scomode poltrone dei cinematografi; c’era chi vedeva nello schermo il riflesso della propria vita o chi, invece, un portale verso una realtà ideale e ultrasensibile creata con l’ artificio di altri.
L’amore per quel cinema “sbiadito” di Mia e quello per il jazz intriso delle conflittualità esistenziali proprie di Sebastian si legano, in questo film, indissolubilmente nell’ incessante dialogo tra realtà e sogno e realtà e finzione che si incrociano così da condurre lo spettatore da un segmento all’altro della storia con la stessa vorticosità e musicalità del piano sequenza iniziale.
Essenziali al fine della riuscita del film sono quegli accorgimenti, ben nascosti e impercettibili, con cui il Chazelle chiarisce la propria unicità d’intenti: l’attenzione quasi spasmodica verso i suoni della realtà, spiegati dalla sua passione per il jazz e, inoltre, la possibilità di delineare la psiche dei protagonisti attraverso l’intensità dei colori. Il blu è il colore della malinconia e del rimpianto, di quei sentimenti che grandi jazzisti hanno saputo nobilitare con la propria musica ed è, non a caso, il colore dell’abito che indossa Mia all’inizio del film sentendosi, nonostante lo sfarzo da cui è circondata, profondamente sola.
La nostalgia si avverte anche con certe finezze formali, come quando Mia e Sebastian sono al cinema e la pellicola si brucia improvvisamente – impossibile, al giorno d’oggi – dandogli così l’opportunità di oltrepassare il confine tra realtà e finzione ed entrare nei luoghi del film che stavano vedendo.
Un piano sequenza, quello d’esordio, e una macchina da presa che seguono i movimenti dei personaggi con un ritmo incalzante fin dalle prime entusiasmanti battute e nel corso di tutto il film, non lasciando spazio alcuno a pause o attimi di sospensione se non per quei momenti di incredibile estasi sentimentale e pathos nostalgico con cui Chazelle fa rivivere il passato: il richiamo al cielo stellato di Swing Time, dove la leggerezza dei corpi e delle voci di Fred Astaire e Ginger Rogers sembrano materializzarsi in Sebastian e Mia, che si librano improvvisamente in uno scenario cosmico dallo stesso sapore di quello in cui Satine e Christian si dichiarano amore eterno…
E si potrebbe continuare all’infinito con questo gioco di rimandi, parallelismi e citazioni che contraddistinguono, in generale, un tipo di cinema che sappia reinventarsi attraverso esperienze artistiche definite e appartenenti ai giorni di fulgido passato. Ma La La Land non è solo questo: bensì un tentativo, da parte del regista, di cogliere gli accordi e i disaccordi tra contemporaneità e passato e di capire, soprattutto, quanto un’ indole satura di spirito romantico e visionario – come quella di Sebastian nel suo inestinguibile amore per l’autenticità del jazz – sappia ridisegnarsi sulle pagina bianche e vuote del presente.