Prosegue la rassegna dedicata a Renato Castellani e alla sua rappresentazione della gioventù italiana. Oggi è stata la volta de Il Brigante. Esistono varie versioni del film: un primo montaggio della durata di circa quattro ore, la versione presentata alla Mostra del cinema di Venezia del 1961 e questo restauro della durata di circa tre ore che va ad aggiungere alla versione del ’61 trentacinque minuti. Negli stessi anni in cui Francesco Rosi stava lavorando a Salvatore Giuliano, Castellani confeziona il suo film su un bandito, distanziandosi molto dallo stile documentaristico di Rosi, girando una vera e propria epopea calabrese. Michele Rende è un giovane carismatico che sta dalla parte degli oppressi, guida le lotte contadine, ma l’ingiustizia della società nella quale vive lo porterà a commettere dei crimini. Un film duro che s’interessa dei legami tra politica e crimine organizzato, di lotte contadine, di liberazione e libertà e del controllo americano sul territorio. I contadini sono oppressi, hanno bisogno di un uomo come Michele per ribellarsi alla propria condizione di sottomissione, ma anche la rivolta sembra essere inutile. Questo mette angoscia, in qualunque modo il contado si muoverà i padroni troveranno sempre una maniera per riuscire a uscirne con successo.

Il Brigante non è solamente un film contadino, ma riflette sulla genesi della collusione tra le mafie e il potere politico (che ancora oggi ammorba il Paese), sulle contraddizioni del controllo americano in Italia e sull’illusione che la liberazione e la democrazia siano a prescindere portatrici di libertà. Tutto visto attraverso il problema meridionale del latifondo: i contadini non potevano avere terre proprie, ma erano costretti a lavorare quelle dei padroni che si arricchivano sfruttandoli. Lo spettatore è accompagnato nelle vicende dal vero protagonista: il piccolo Nino. L’intero film è un lungo flashback, un racconto al passato compiuto dalla voce over di Nino, divenuto adulto. Il ragazzo cresce, vive cambiamenti sociali e politici, ma si rende conto che le oppressioni non scompaiono, rimangono unica costante del mondo che abita.

I cambiamenti avvengono anche in lui e in chi gli sta attorno: egli stesso quando incontra Michele ne fa un esempio da seguire, ma piano piano comincia a cambiare opinione in modo direttamente proporzionale alla mutazione dello stesso bandito che, in seguito a una concatenazione di situazioni sfavorevoli si trova costretto a varcare il confine e passare da benefattore a carnefice, fino al momento in cui viene tradito.

I luoghi, le interpretazioni e la fotografia sembrano restituire nel giusto modo la realtà meridionale dell’epoca. Vera e propria chicca è la raffigurazione di una folla che avanza in una polverosa strada di campagna, come a voler riproporre il dipinto di Giuseppe Pellizza da Volpedo Il Quarto Stato, ma anche la sequenza dell’occupazione delle terre da parte del popolo che mette in fuga i campieri è di una potenza sconvolgente, arriva dritta al cuore, è dura, sincera e molto emozionante.

Il film è amaro e l’idea che le cose non possano cambiare asfissiante, sembra si vada verso un oblio dal quale sarà improbabile uscire, ma nel finale c’è uno spiraglio di luce: forse alcune terre verranno assegnate ai contadini e allora il male e la sofferenza non saranno stati vani.

Stefano Careddu