La verità negata, dedicato allo scontro in tribunale tra la storica Lipstadt e il negazionista Irving, in proiezione in questi giorni, è un film importante per come affronta il tema della realtà e della sua falsificazione, della trasmissione del sapere e dell’imposizione di miti, conducendo a un confronto non banale con l’epoca contemporanea. 

Il nuovo film di Mick Jackson esce a quattrodici anni di distanza dall’ultimo clamoroso flop della sua carriera di autore cinematografico, quel Soldifacili.com costato alla produzione circa 17 milioni di dollari e capace di incassarne appena 5.491 nella sua unica settimana di distribuzione in due sale. Niente a che vedere con altri titoli della sua filmografia anni ‘90, come Pazzi a Beverly Hills con Steve Martin o The Bodyguard sceneggiato (impietosamente) da Lawrence Kasdan e oggi ricordato solo per le musiche da Oscar di Whitney Houston. La verità negata si distacca come genere e anche come fattura però dai precedenti film del regista, ascrivendosi nel filone del film giudiziario e riscuotendo, già a pochi giorni dal suo debutto in sala, un discreto successo di pubblico e critica.

La pellicola ricostruisce la vicenda giudiziaria della storica statunitense (ebrea) Deborah Lipstadt (Rachel Weisz) che si trovò a doversi difendere dalle accuse di diffamazione nei confronti di David Irving (Timothy Spall), storico militare britannico autodidatta, studioso di Adolf Hitler. Nel suo libro Denying the Holocaust (inedito in Italia) del 1993 la Lipstadt aveva chiaramente rivolto a Irving accuse di negazionismo e antisemitismo. Per questa ragione Irving chiamò la storica americana a render conto delle sue accuse davanti ad un giudice britannico, e proprio su questo doppio binario di differenti identità e convenzioni legali (USA vs GB) si gioca gran parte dell’interesse della pellicola. L’altra metà risiede nel kafkiano paradosso di ritrovarsi, per una ragione quasi futile (vilipendio alla reputazione-dubbia-di un sedicente storico), a costruire un processo sull’Olocausto. Agghiacciante il sentimento che scorre sotterraneo per tutto il film, quel dubbio velato quasi impronunciabile che ci fa sospettare di noi stessi e delle nostre conoscenze storiche: l’Olocausto è storia, ma perchè sappiamo che accadde? Abbiamo forse tralasciato di raccogliere prove “scientifiche” a sufficienza della sua esistenza? Per tagliare la testa al toro, la pellicola ci porta quasi immediatamente a calpestare il suolo di Auschwitz. Nei fotogrammi che ci riportano “sul luogo del delitto”, alla raccolta di prove inconfutabili di quello che è stato, i toni della pellicola virano al grigio, e ci si perde nelle panoramiche ghiacciate su questo deserto di affollata morte, dove persino il filo spinato sembra piangere i suoi milioni di morti.

In questa scena si dipana il nucleo centrale del film. Davanti alla storia dell’Olocausto due le reazioni possibili, la prima quella della protagonista coinvolta sentimentalmente nella rievocazione della tragedia in quanto “imputata” ed ebrea e quindi incapace di vedere obiettivamente quale sia la strategia legale da seguire per sconfessare in tribunale le bugie del mistificatore Irving. La seconda quella più distaccata e giudiziariamente vincente, seguita dai legali della Lipstadt Anthony Julius (Andrew Scott) e Richard Rampton (Tom Wilkinson), per scagionarla dalle accuse dimostrando l’assoluta fondatezza delle sue affermazioni su Irving.

Il racconto si svolge nella tradizionale alternanza di genere fra le scene in cui i personaggi costruiscono la loro linea difensiva, tra un buon bicchiere di rosso e una sigaretta, e quelle ambientate nell’aula del tribunale, dove spicca la presenza “muta” dei testimoni sopravvissuti dell’Olocausto, che avrebbero voluto intervenire in aula, ma sono risparmiati dalla difesa, per non andare in pasto al leone assetato di una verità “altra”, Irving, un Timothy Spall (attore feticcio di Mike Leigh) in gran forma, reduce da una meritatissima Palma d’Oro a Cannes 2014 come miglior interprete maschile per il film Turner dedicato alla controversa figura del pittore britannico William Turner.

Il fantasma del ritorno alla follia del Terzo Reich evidentemente aleggia insistente per l’Europa se a breve distanza vengono alla luce due pellicole come La verità negata e Lui è tornato (Germania 2015) di David Wnendt, il cui fulcro ruota attorno ad un essenziale monito: l’importanza della memoria storica. Al di là delle false conoscenze diffuse e promosse dalla sottocultura di massa e dalle distorsioni di una informazione sempre più “social” e sempre meno verificata, ciò che dovremmo rimembrare è che “la storia è una”, come dice la protagonista del film nella scena finale, “le cose o sono successe oppure no” non si può avere delle opinioni personali a riguardo, e poi riferendosi ad uno dei tanti miti della cultura di massa diffusi dal passaparola delle persone che vogliono crederci, ricorda “Elvis non è vivo, Elvis è morto” ed allo stesso modo bisogna accettare che l’uomo è stato capace di uccidere circa 15 milioni di persone ebree in nome dell’ideologia nazista. Fact non opinion.

In chiusura, per gli appassionati dei film tratti da storie vere, aggiungeremo che nei fatti, il giudice rigettò la causa. I libri di Irving vennero analizzati passo per passo, evidenziandone le molteplici storture e di conseguenza persero ogni valenza di scientificità. Irving – che aveva speso delle somme ingenti per impostare la causa – venne travolto anche finanziariamente, dovendo dichiarare bancarotta nel 2002. Come a dire, mentire non conviene, nemmeno economicamente.

Francesca Divella