Ecco un altro approfondimento sulla giornata dedicata a Leonard Cohen e il cinema. Questa volta Marianna Curia ci parla di I’m Your Man.
C’è stato un tempo in cui Leonard Cohen non faceva di mestiere il cantante, ma lo scrittore e il poeta. Poi, come per altri giovani talenti della sua generazione (da Patti Smith a Jim Morrison), quando nacque l’esigenza di raggiungere il vero successo di pubblico, i testi poetici cantati rappresentarono un buon sistema per arrivare a raggiungere quell’ ambizioso obiettivo. Nell’anno in cui si vuole conferire a Bob Dylan il premio Nobel per la letteratura, un documentario come I’m Your Man (Lian Lunson, 2005) rimette a tema non solo la centralità del rapporto poesia-musica attraverso il poeta-cantante Leonard Cohen, ma affronta anche la questione, legata implicitamente al significato di quel rapporto, di cosa sia un maestro oggi.
I’m your man è il montaggio di immagini del concerto-tributo intitolato Came So Far for Beauty tenutosi al Teatro dell’ Opera di Sydney. Alcuni famosi musicisti – tra cui Martha Wainwright, Beth Orton, Jarvis Cocker, Nick Cave, Antony Hegarty, Linda Thompson -, cantano le canzoni di Cohen alternate alle interviste, oltre che al racconto autobiografico dello stesso Cohen: così, mentre alcuni dei cantanti intervistati parlano dell’amicizia che li legava all’artista canadese (Nike Cave rivela di averlo visto in mutande la prima volta che lo incontrò a casa sua), altri preferiscono parlare di ciò che Cohen ha rappresentato nella loro vita (sia artistica – Jarvis Cocker ammira la meticolosità di Cohen nella fase di scrittura dei testi; che umana – Edge e Bono parlano di Cohen come di un artista che sa raccontare i sentimenti e gli stati dell’animo umano di tutte le età). Sul palco le interpretazioni canore sono visibilmente commosse (ad esempio quella di Antony che canta If it will be your will, o quella di Perla Batalla che canta Bird on the Wire), mentre i racconti di Cohen sono al limite tra il serio (l’infanzia, la religione ebraica, la figura del padre) e il divertito (umoristico è il racconto del suo disagio nell’indossare i blue-jeans).
E’ lo stesso Cohen a dirci chi fu il suo maestro: il monaco Roshi, che lo ha condotto sul monte Boldhy durante il periodo di una lunga depressione psicologica. Sono state le discussioni su temi personali ed esistenziali con i monaci buddisti della California a condurre Cohen, circa alla metà della sua lunga carriera, ad un ritorno alla scrittura musicale. Insomma, la centralità del logos viene riconfermata (freudianamente) anche come forma di autoterapia. Il modo di cantare di Cohen punta sulla comprensibilità del testo: in questo senso, la parola si fa portatrice di significati che hanno guidato le vite di una generazione (non si dimentichi, tra l’altro, l’omaggio ai testi poetici di Cohen da parte del musicista colto Glenn Gould nel disco Book of Longing).
In un’epoca come la nostra che non vede nuovi maestri, il ricordo di Leonard Cohen può diventare allora non solo quello del musicista-poeta, ma anche, forse più necessario, quello del poeta-musicista.
Marianna Curia – Associazione Culturale Leitmovie