Dal taglio comico a quello erotico, dalla leggerezza cabarettistica alla teatralità prepotente e irresistibile di grandi e sempreverdi leggende d’istrionismo, fino all’acidità grottesca e all’orrore lovecraftiano, il cinema collettivo in Italia, si è mosso in tante direzioni e, dagli anni ’50 a questa parte, non ha mai cessato di svelare eterogeneità complesse e ricche di implicazioni, oltreché di far sprizzare lacrime a profusione dalle risate. La caratteristica più curiosa e interessante di questo modo di concepire il cinema è lo specialissimo amalgama di sensazioni generate dal succedersi delle diverse storielle, specialmente dall’abbandono dei personaggi -condensati, con le loro vicende bizzarre in non più di 48 minuti-, vederli scorrere e doverli poi salutare, scossi a destra e a manca dal continuo alternarsi di tempi, scenari, volti, suoni. Un cinema che non aveva pensato alla malinconia di velluto che avrebbe portato con sé, che avrebbe lasciato di sé.

Al di là del risaputo contesto natìo, della storicizzazione, della genesi, della forma, del solito messaggio sociale, chi scrive vorrebbe porre l’attenzione sull’appena passata rassegna di corti. Di questi, appunto, estratti di film a episodi. E su un trait d’union che non è stato, ahimè, affatto colto.

Parlando della rassegna appena svoltasi, pleonastico e ripetitivo sarebbe sottolineare il solito, indiscutibile, prevedibile successo riscosso dagli episodi più ilari estratti da pellicole cult quali Boccaccio 70, Controsesso e L’amore difficile. Successo dovuto a cosa? Alla risata, naturalmente. Se il pubblico è andato in preda a isterie gracchianti e tremolanti nel vedere la mano sudata di Manfredi insidiarsi fra mille pieghe dell’abito funerario dell’altrettanto funerea neo-vedova Fulvia Franco a bordo di un treno incandescente sfrecciante nella calura estiva (a parer di chi scrive, comunque, oggi come oggi più che altro seriamente disturbante), se ha incessantemente sciorinato martellanti sguaiataggini dinanzi al Tognazzi profesore feticista, coccolato da chiassose nonnine sorde, che inserisce un pisciatoio in aula per imprigionare le sue grottesche alunne, di cui assapora i bigliettini scordati sul banco nonché le tracce lasciate sulle sedie dai loro fondoschiena con una maniacalità inquietante ben camuffata dietro uno stoico atteggiamento di irreprensibilità (un Ferreri cinicissimo e sghignazzante, in forma smagliante), se ha riconosciuto con applausi convinti i nostri mostri sacri – Sordi in gonnella che vende bolle e poi sfoggia denti equini che visti oggi richiamano spaventosamente Nicolas Cage, De Sica senior che guida l’autobus nei panni del pittoresco Don Corradino, assecondando il padre fondatore del cinema episodico Blasetti-, ha però anche lasciato la sala in un mezzo silenzio glaciale, quasi a proseguire intenzionalmente la malsana atmosfera in cui trova fine un Terence Stamp d’ebbra claudicanza nella gemma conclusiva del macabro Tre passi nel delirio, quel Federico Fellini’s Toby Dammit che chiudeva in chiave moderna un trittico di riletture gotiche e perverse di Poe firmate dal solito estetizzante Vadim e da un raffinato Malle. Un film che chi scrive ama da tempo.

La speranza di una riscoperta probabilmente è vanificata, vista l’imbarazzata, temeraria, scioccata e ammutita accoglienza. Un vero peccato e una certa paura, ciò che rimane della proiezione del gioiello felliniano, che il pubblico ancora immerso nell’ingannevole atmosfera gioiosa degli innocui estratti anzidetti ha evidentemente frainteso, guardandosi bene dal recepire l’ancestrale atmosfera già respirabile nell’avvolgente sequenza iniziale, immersa in un oceanico tramonto vitreo riflesso sugli specchi di un aeroporto zeppo di macchie saettanti, persone che a poco a poco si illuminano, quando da un angolo emerge la figura dell’attore ubriacone Toby Dammit, giunto alla premiere del suo nuovo film, attratto più che altro dalla promessa di una Ferrari. Perseguitato dal demonio, incarnato da un furto baviano (si veda Operazione paura, 1966) che, va detto, supera, orrorificamente parlando,la fonte d’ispirazione grazie alla luciferina espressione di questa più efficace bambina bionda, troverà la morte proprio durante il suo appagante piacere finale, alla guida dell’agognata Ferrari. Una corsa memorabile che stempera nei sulfurei, plumbei recessi di una Roma terrificante, muta e decadente, animata qua e là da silhouette e ammiccanti figuri sordidi e rubicondi, in una pazzesca commistione di elementi tutti felliniani sposati alla poetica del macabro coniata dal maestro Bava con I tre volti della paura, uno dei film chiave dell’episodica horror (e che rispettava peraltro, come nel caso in analisi, le convenzioni burocratiche di questo Cinema, con coproduzioni, attori di richiamo e trame allettanti). Il freddo entusiastico che attanaglia la pancia è, come regola vuole, generato dall’atto conclusivo, anche se la Jane Fonda divorata dai rimorsi in sella fra le fiamme, abbandonata alla morte, dell’episodio “Metzengerstein” e il Delon farneticante, psicotico e tormentato che sfida a carte una Brigitte Bardot nerocorvina in “William Wilson” erano le carte vincenti dei precedenti momenti, degni antipasti prima della portata monstre conclusiva, nella quale Fellini fonde il suo ormai arcinoto gusto estetico e formale ad un’accattivante, incalzante parabola discendente, nella quale riflette sull’autocondanna distruttiva e marcescente dell’attore, senza dimenticare che aveva appena sperimentato l’LSD, e non volle certamente affondare nel nulla l’esperienza. Ogni scelta scenografica e figurativa corrisponde a una volontà espressiva sempre diversa, susseguendosi in una linearità narrativa che comunica talora in modo grottesco talora fantastico, talora col black humour talora col kitsch precisi sintomi di degrado interiore, come una sontuosa marcia funebre, sempre ai confini della follia pura, della perdizione completa, con l’ombra di questo diavolo biancovestito invisibile che potrebbe emergere in qualsiasi momento dalle insidie pietrose della nerissima Roma notturna. La sottilissima critica al sistema che Fellini si concede è sublimata nel memorabile segmento delle premiazioni, un’ orgia di demonietti deliranti e soffocanti ambientata in una fumosa e stravagante struttura catacombale, dove si sprecano il nonsense e l’elucubrazione, annegati in chili di farinosa cipria e rivoli di sudore.

Un orrore rifiutato, certamente il finale violento lascia a bocca aperta e ti si incolla addosso portandosi dietro la bianchiccia e tenebrosa scorribanda di malsanità anticipatrici dell’indimenticabile conclusione, rivestite di una nuova, posteriore ottica. Qual è dunque l’orrore più apprezzato? Quello tollerabile, probabilmente. Ma siamo certi che, oltre a quello dichiarato e fantasy dell’inedito Fellini post LSD erede della formula baviana, non ve ne siano altri, nemmeno poi troppo sottili? Quello nemmeno così sottile di Ferreri che guarda al sociale e si muove sul consueto terreno del grottesco realista cos’è se non orrore raffreddato nella pacatezza della cotonata e luminosa messa in scena? Per non parlare di quello involontario di Manfredi, che anziché far sbellicare ha fatto riflettere su un fenomeno frequente come mai prima d’ora. E che dire della triste e allucinante parabola della coppia boccaccesca che insegue la propria autonomia e cerca una realtà nella quale potersi inserire rimanendo intrappolata nell’impressionante caos operaio (si segnalano i frequenti campi lunghi, con la scena della piscina che arriva perfino a ripugnare e destabilizzare con l’infernale e impressionante numero di comparse rosolate che si agitano in un calderone che di azzurro conserva ben poco, incroci inquietanti fra vermi e maccheroncini in pentola), suscitando risate che somigliano a una disperata presa di coscienza? L’orrore e le sue molteplici facce assume ora una contestualizzazione, la tipica formula denuncia-intrattenimento si rivela oggi capace di un grande esercizio comunicativo. Probabilmente ancora si è convinti che al nostro Cinema sia sufficiente la risata, ma ecco come, oggi come oggi, inaspettatamente, i proverbiali 30 minuti di pellicola assumano un respiro decisamente più ampio, più sfaccettato, tutt’altro che datato, tutt’altro che illusorio, tutt’altro che divertente, e forse proprio perchè lo spettatore non ha colto tale segnale (la risata non fa il nostro cinema), il Toby Dammit, scandalosamente, ha ricevuto un’ibernante accoglienza.
Ehy, what did you expect?

Francesco Woodman con la collaborazione di Alice Alvisi