L’appetito tecnico vien guardando. Approfittando della presenza del 70 mm per The Hateful Eight di Quentin Tarantino (del quale abbiamo abbondantemente parlato qui e qui), e dopo lo splendore accecante di Lawrence d’Arabia di David Lean a fotogramma pieno, tocca inevitabilmente a 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick. Come molti ricordano, la presente versione fu proiettata davanti a oltre 7000 persone in Piazza Maggiore nel luglio del 2015, durante Il Cinema Ritrovato. Allora, chiedemmo a Marcello Walter Bruno, nostra “guest star critica”, di recensire per noi – più che il film – l’esperienza vissuta. Per sollecitare una nuova visione, riproponiamo qui parte dell’articolo di qualche mese fa, a seguire.

Vedere in Piazza Maggiore 2001: Odissea nello spazio in versione originale – con ciò intendendo il parlato inglese (la voce di Hal!) ma soprattutto la pellicola in formato panoramico (70 mm) – è come vedere il Giudizio Universale stando naso all’insù nella Cappella Sistina (il riferimento a Michelangelo fa al caso, visto che nel film c’è una Pietà in versione cyberpunk). Le dimensioni contano, quando l’opera mette in gioco lo spazio e gli spazi: bisogna che le astronavi mi cadano addosso (ad osso) come le anime dannate, e che i dettagli da gustare riempiano ciò che su piccolo schermo sono tempi morti (tutta la parte ambientata sulla Luna).

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E allora, fra le tante letture possibili di questo capolavoro semplice ed eccessivo, metteteci anche una metafora del rapporto fra lo schermo e il pensiero. Questo monolite che accende un immaginario senza limiti (l’inserto soggettivo dell’animale abbattuto genera la catena osso-astronave-penna) reagisce male al tentativo di farlo entrare in una foto di gruppo, ricompare dopo la lobotomizzazione del cervello elettronico (inaugurando un trip lisergico catalogato da Gene Youngblood come “expanded cinema”) e infine si erge nella stanza della pittura, promettendo immortalità sotto forma di riproduzione. Gli spettatori cinematografici sono nati come gruppo di scimmie nella caverna di Platone e sono maturati fino all’individualismo di un rapporto privato e casalingo: tornare in piazza significa tornare scimmie, per il piacere impagabile di riprovare quello che nel film il dottor Floyd chiama uno «shock culturale».

Grazie, Bologna, per il cinerama ritrovato.

Marcello Walter Bruno