Programmato nella retrospettiva dedicata a Silvano Agosti, N. P. Il segreto è, appunto, un film segreto. Da più di quarant’anni, la Rai paga i diritti affinché non venga trasmetto in televisione e, in fondo, quando se ne lamenta pubblicamente, Agosti appare un po’ fiero del permanente ostracismo. Nell’ottica di questo autore da sempre indipendente, la censura di Stato attesta quanto perturbante ed inquietante sia stata la sua visione dell’imminente futuro, una società apocalittica dominata dall’automazione.
Il secondo lungometraggio di Agosti s’inserisce nella new wave autoriale sessantottina che incanalava il contestatario spirito del tempo in una mediazione artistica, spesso emancipata rispetto al realismo, maggiormente tesa all’allegoria (Nel nome del padre di Marco Bellocchio, Strategia del ragno di Bernardo Bertolucci), al fantastico (H2S di Roberto Faenza, Sotto il segno dello scorpione di Paolo e Vittorio Taviani), al racconto distopico (I cannibali di Liliana Cavani). Tra questi film, N. P. è probabilmente il meno conosciuto e celebrato, non per demeriti ma perché sostanzialmente invisibile nonostante il coinvolgimento di tre star europee: lo spagnolo Francisco Rabal, habitué del nostro cinema; la svedese Ingrid Thulin, che compare generosamente soltanto in due scene; e la greca Irene Papas, pagata mezzo milione a fronte di un cachet solitamente vicino al miliardo (tuttavia Agosti ha rivelato che alla fine delle riprese la diva restituì i soldi).
Sarà forse una suggestione suggerita dalla presenza di quest’ultima, ma N. P. vanta qualche affinità con Z. di Costa-Gravas: il titolo con le lettere puntate, la divisione tra “buoni” e “cattivi”, la pregevole confezione, la musica incalzante (di un Nicola Piovani alle prime armi), la dimensione spettacolare, il valore politico, il principio solidale nella realizzazione. Sarebbe però miope accostarlo al caposaldo franco-algerino, perché Z. denuncia ciò che era accaduto in Grecia a mo’ di monito mentre N. P. ipotizza ciò che potrebbe accadere in un’Italia futuribile metafora del mondo automatizzato – quindi disumanizzato.
La storia è quella di un ingegnere, a capo dell’industrie riunite, che, avendo progettato un sistema di conversione dei rifiuti in cibo, viene sequestrato e privato della memoria e della parola. Incapace di comunicare e relazionarsi, è accolto da una famiglia della periferia, composta da uomini inoccupati a cui lo Stato garantisce un cospicuo sussidio allorquando non servono più in quanto forza lavoro. Il responsabile della meccanizzazione si ritrova così a vivere nella fascia sociale più colpita dall’(ab)uso della sua invenzione, diventando altresì vittima astante degli assurdi effetti che ne conseguono (come la messa meccanizzata, con la voce di Marco Bellocchio che ripete la liturgia all’infinito).
L’apologo anticipa effettivamente gli umori, nonché alcuni eventi, del decennio più infuocato della storia recente, dal brigatismo allo stragismo, e non rinuncia ad evocare segreti di Stato del passato prossimo (per esempio l’incidente aereo in cui perì Enrico Mattei), in una prospettiva che, sotto l’angoscia sconvolgente della catastrofe incipiente, accusa la classe dirigente di caldeggiare la scomparsa, finanche fisica, della classe operaia. Agosti, virtuoso del montaggio, dirige con un approccio cronachistico, pur senza negarsi uno sguardo alienato, allucinato, sbilenco, concentrato sul particolare, tra l’altro rivelando negli esterni una forte attenzione estetica per l’urbanistica che rafforza visivamente la profondità e l’ampiezza del suo discorso politico, da leggere comunque come capitolo di un’opera tutt’ora in lavorazione.
Lorenzo Ciofani