Vedere in Piazza Maggiore 2001: A Space Odissey in versione originale – con ciò intendendo il parlato inglese (la voce di Hal!) ma soprattutto la pellicola in formato panoramico (70 millimetri) – è come vedere il Giudizio Universale stando naso all’insù nella Cappella Sistina (il riferimento a Michelangelo fa al caso, visto che nel film c’è una Pietà in versione cyberpunk). Le dimensioni contano, quando l’opera mette in gioco lo spazio e gli spazi: bisogna che le astronavi mi cadano addosso (ad osso) come le anime dannate, e che i dettagli da gustare riempiano ciò che su piccolo schermo sono tempi morti (tutta la parte ambientata sulla Luna).

Il caso e la necessità hanno fatto chiudere “Il Cinema Ritrovato” versione 2015 sabato 4 luglio, independence day (ancora fantascienza con invasione aliena) e data kubrickiana (impressa sulla foto finale di Shining). Venerdì 3 c’è stato all’Ambasciatori (una libreria che occupa i locali di un ex cinema) l’incontro con Francesco Casetti autore di La galassia Lumière, un titolo che unisce l’astronomia al cinema per parlare della settima arte come universo in espansione. L’esperienza del cinema sotto le stelle, dello schermo in Piazza Maggiore (un inquietante monolite tra Palazzo Re Enzo e San Petronio), si presta ad essere letto nei termini casettiani della rilocazione e dell’ipertopia, soprattutto nella inevitabile somiglianza con la media-facciata in Piazza Duomo a Milano del 2007/2010 (l’anno del contatto!), che ha messo il megaschermo in diretta competizione con stato e chiesa (Palazzo Reale e Duomo di Milano). Ma, pensando ai molti giovani presenti (e plaudenti), viene anche da dire che la “rilocazione” funziona nei due sensi, quello dell’odissea delle grandi opere negli spazi di tecnologie meno ricche (chi scrive ha cominciato ad insegnare cinema quando 2001 si poteva visionare solo da videocassetta) ma anche del ritorno all’Itaca dello schermo panoramico.

E allora, fra le tante letture possibili di questo capolavoro semplice ed eccessivo, metteteci anche una metafora del rapporto fra lo schermo e il pensiero. Questo monolite che accende un immaginario senza limiti (l’inserto soggettivo dell’animale abbattuto genera la catena osso-astronave-penna) reagisce male al tentativo di farlo entrare in una foto di gruppo, ricompare dopo la lobotomizzazione del cervello elettronico (inaugurando un trip lisergico catalogato da Gene Youngblood come “expanded cinema”) e infine si erge nella stanza della pittura, promettendo immortalità sotto forma di riproduzione. Gli spettatori cinematografici sono nati come gruppo di scimmie nella caverna di Platone e sono maturati fino all’individualismo di un rapporto privato e casalingo: tornare in piazza significa tornare scimmie, per il piacere impagabile di riprovare quello che nel film il dottor Floyd chiama uno “shock culturale”.

Grazie, Bologna, per il cinerama ritrovato.

Marcello Walter Bruno