Li chiamano walking simulator, spesso con un tono vagamente sarcastico. Non sono giochi, dicono, non c’è un obiettivo, non c’è sfida, non si vince né si perde. Quella passeggiata è l’emblema del non-fare, a tal punto che puoi mettere da parte il joypad e guardarti un video su Youtube, come fosse un film. Tanto è la stessa cosa. Da giocatore a spettatore. L’esigenza di catalogare ogni cosa per poterne parlare comodamente è quasi innata, ma non sempre necessaria, e spesso fa più danni che altro. Perché poi, a furia di chiamarle passeggiate, si rischia di ridurre il valore di opere che, al contrario, mostrano quanto i confini videoludici siano malleabili, le potenzialità narrative molteplici. Chiamiamole avventure: è un genere che esiste dall’alba dei tempi, con declinazioni differenti. Fermiamoci qui, però. Il concetto di genere è fumoso al cinema e i videogiochi non fanno eccezione. Per questo non li chiameremo walking simulator, li chiameremo col loro nome: Dear Esther, Everybody’s Gone to the Rapture, The Vanishing of Ethan Carter. I cinefili potrebbero apprezzarle, queste passeggiate.

Lo sguardo si apre sul mare delle Ebridi Esterne. “Cara Esther”, così inizia il monologo della voce narrante. Sono stralci di lettere immaginarie, riflessioni sulla vita, sulle cose, sui luoghi. All’eterna soggettiva del personaggio/narratore, che cammina tra le fredde e brulle isole scozzesi, fa da contrappunto questo narrare costante, che svela per tappe i sentimenti del protagonista. Si cammina, lentamente; si esplora, affascinati; si ascolta, straniti. Ne scaturisce un’esperienza anomala per l’ambito videoludico, tant’è che Dear Esther viene considerato il capostipite di quel genere che non vogliamo nominare. Gli sviluppatori del gioco, recentemente, sono tornati sulla scena del delitto con un titolo che viene considerato il successore spirituale di Dear Esther, ovvero Everybody’s Gone to the Rapture. Anche in questo caso si punta in alto, sul fronte dei temi trattati, e anche in questo caso il giocatore è chiamato a esplorare lo scenario. Per l’occasione il setting s’è spostato dalle isole scozzesi alla contea dello Shropshire, Inghilterra. È successo qualcosa nell’immaginaria cittadina di Yaughton, sono spariti tutti. Solo alcune misteriose luci vagano tra le case e le auto abbandonate. Di quanto accaduto rimangono tracce qua e là: tra vita e non-vita c’è di mezzo un universo intero. Gli oggetti raccontano più di quanto non si vorrebbe vedere. Sul tema si è cimentato anche lo studio polacco The Astronauts.

The Vanishing of Ethan Carter prende una pezzo di Wisconsin e ci getta l’investigatore privato Paul Prospero. A chiamarlo è stato il piccolo Ethan Carter, solo che di Ethan non c’è traccia a Red Creek Valley. Esplorazione e narrazione vanno di pari passo, in un titolo che solo in apparenza dona libertà al giocatore. Sul finire dell’avventura si aprono interrogativi notevoli, che vanno al di là del gioco stesso: la narrazione ha bisogno o meno di un regista per essere efficace? Concedere questo ruolo al giocatore è un azzardo? The Vanishing of Ethan Carter, tra esplorazione e narrazione, introduce anche una serie di enigmi da risolvere. Sarà per questo che qualcuno l’ha definito “più gioco” di Dear Esther.

A tal proposito: cosa fa di un videogioco un videogioco? Un interrogativo complesso e sfaccettato quanto il finale di tutte e tre le opere messe assieme. C’è chi sostiene non sia l’interattività – termine troppo generico – il tratto distintivo dei videogiochi, bensì la manipolazione spaziale, la relazione che si instaura tra giocatore, avatar e scenario virtuale. Se così fosse, non è forse nell’esplorazione che il videogioco si realizza pienamente? Chissà.

I cinefili curiosi possono andare su Youtube e cercare un longplay dei tre titoli, come fosse un film (qui, qui e qui). Tanto è la stessa cosa, afferma qualcuno. Oppure possono prendere in mano il joypad: da spettatori a giocatori.

Andrea Dresseno