I festival come Il Cinema Ritrovato servono anche a ristabilire il giusto peso di film che, visti con occhi meno impolverati, ritrovano una vita e un’energia imprevedibili. Model Shop, il film che Demy diresse in America nel 1969, è uno di questi. Considerato un’opera minore nella sua già altalenante carriera, è invece un esempio strepitoso di film completamente imbevuto della sua epoca, di cui costituisce al tempo stesso un’analisi e un documento.

Una giornata nella vita di George Matthews: questa l’unica trama della storia di Demy, che ne approfitta – attraverso questo personaggio indolente e attendista, inconcludente e laconico – per raccontare l’America di fine anni Sessanta. La testimonianza storica (quasi in diretta con gli avvenimenti) giunge ad essere impressionante, nel momento in cui il protagonista viene chiamato per la leva in Vietnam. Siamo nel 1969, e dalla radio giungono i notiziari sull’apertura dei negoziati di pace: George sorride speranzoso, ma noi spettatori di oggi sappiamo che la fine della guerra è ancora lontana.

Tutto questo però è nulla se confrontato al rapporto malinconico e sbilenco che Demy instaura tra Model Shop e Lola. Lola ricompare, ma solo come personaggio secondario. Il suo è un ruolo apparentemente subalterno, anche se destinato a cambiare la vita del protagonista. L’infelicità (Demy fa in modo di riempire il vuoto tra il primo film e questo, narrandoci le tristi vicende del suo personaggio) si stempera nell’incontro con George, così come George trova un suo centro proprio grazie a questo incontro. Raramente si è visto un non-sequel così sentito e struggente. Il resto di Model Shop è una sorta di catalogo di oggetti, vestiti, automobili, design, arredamenti, acconciature, trucchi e stili di vita dell’epoca. Un film da ricollocare nella propria teca.

 

Ciné-fils