Mentre continuano lungo tutto dicembre le repliche di Risate di gioia, la Biblioteca Renzo Renzi ha svelato uno dei suoi tesori: un’interessante intervista della giornalista Mirella Delfini al burbero Monicelli, pubblicata su Il Tempo del 29 dicembre 1962. In quell’anno Monicelli aveva partecipato alla lavorazione del film collettivo Boccaccio ’70 girando l’episodio ”Renzo e Luciana” e si apprestava di lì a poco, con l’inizio del nuovo anno, a incominciare le riprese del lungometraggio successivo a Risate di gioia, I compagni con Marcello Mastroianni e Annie Girardot. Di quel film il regista racconta: “È la storia di uno sciopero che risale al 1895, o ’98. Uno dei primi scioperi italiani. Il produttore non lo voleva fare, diceva che gli scioperi sono cose tristi, che bisognava trovare un argomento più divertente. ‘Ma come’ rispondevo io, ‘non ho fatto La grande guerra?’. Più triste di così, migliaia di morti, di feriti e alla fine crepano pure i due protagonisti. Eppure è venuto fuori un film divertente. Anche I compagni dovrà avere lo stesso tono. Insomma ci ho messo due anni per poterlo fare. Comincio in gennaio. Come attori per ora ho solo Mastroianni e la Girardot”.
Raccontare alla sua intervistatrice del nuovo lavoro in cantiere è solo un pretesto per parlare della sua visione dell’arte, della vita, del cinema in generale e nello specifico dei suoi colleghi italiani, Germi, Fellini, Antonioni. Già 50 anni fa Monicelli diffidava dalle facili vie di un ottuso ottimismo e aveva messo a punto un affilato sguardo sulla realtà, dichiarando lui stesso, lungo l’intervista, di non poter vivere senza polemica.Una certa dose di crudeltà gli era necessaria, non nella sua vita personale, ma intorno, nelle cose in cui si interessava: “Quando si arriva alla bontà il mondo puzza di morti”. Segue…
Ecco qualche bello stralcio della conversazione tra regista e giornalista:

[…] Mi è cresciuta una gran diffidenza verso tutti quei tipi di artisti che pretendono di essere liberi e fuori da ogni legge e poi non combinano un accidente. Del resto lo dico sempre: la libertà è la tomba dell’arte.

Come?

Un luogo comune da distruggere è quello per cui l’artista dev’essere libero. L’artista non deve essere libero per niente. Sennò è finito. Diventa un pazzo sbrindellato che non sa più quello che fa e quello che vuole. Se il cinema oggi ha questa sua esplosione così viva e aderente alla nostra realtà e al nostro mondo, e se davvero è riuscito a diventare quasi una forma d’arte, o a spacciarsi per una forma d’arte…

A spacciarsi per una forma d’arte?

Sì, perché il cinema secondo me non è una forma d’arte. L’arte dovrebbe essere immortale. I film invece sono di celluloide che dopo qualche decina d’anni si logora, sbiadisce, va al macero. No, mi dia retta, il cinema non è una cosa molto seria. Comunque, dicevo, se è riuscito quasi a fingere di esserlo, lo deve al fatto che non è libero. Al fatto che l’autore, cioè il regista, è condizionato da chi paga il film, e poi dal pubblico, e poi dai mezzi tecnici, dai collaboratori, dagli attori coi quali si deve combattere, e poi dalla censura.

Ma la censura non c’è più.

Un po’ c’è ancora, se non altro per il buon costume. E ci vuole. Pensi ai tempi del Rinascimento. Gli artisti erano liberi? Macchè. Avevano un mecenate che pagava e pretendeva tutto quello che gli pareva. Il mecenate era capace non solo di stabilire la grandezza di un quadro, ma anche i personaggi che ci si dovevano trovare dentro, i colori, eccetera: “Qui ci dovrò essere io”, diceva, “col mio vestito color porpora. E lì mia cugina col suo broccato blu e il filo di perle sulla testa. E il fondo deve essere verde. E non devi spendere più di tanto. E bisogna che sia pronto prima del mio genetliaco”. Alla fine l’artista, se era un vero artista, aguzzava l’ingegno e faceva il capolavoro. Guardi invece cosa succede quando uno può fare tutto quello che gli pare, senza nessuna limitazione: alla fine è paralizzato e non combina più un accidente. In una società bene organizzata, mettiamo in una società socialista, l’artista diventerebbe una persona come si deve, non un anarchico che può fare le cose più ridicole.

Allora durante le dittature dovrebbero uscir fuori chissà quali capolavori, Invece mi pare che né la Russia – almeno nell’era staliniana- né dall’altra parte, la Spagna, abbiano tirato fuori un gran che in fatto di arte.

Io parlo di limitazioni, di binari, di impostazioni. Non parlo di pressioni ideologiche. Quelle, certo, danno altri risultati. Ma guardi l’Italia. Per anni anche dopo la guerra a abbiamo avuto la censura -come dire?- più tradizionale che si possa immaginare, eppure il nostro cinema, proprio il nostro, è riuscito a tirare fuori più cose di quante non ne abbia tirate fuori il cinema di tutto il resto del mondo. Per polemica, per ribellione. Senza polemica e senza ribellione mi sembra che ci sia poca vitalità.

(Vestito per l’intervista con un dolcevita nero Monicelli parla del suo colore politico...)
Già. Il nero dona. Dà un aspetto virile, forte. Suppongo che una certa ragione del proprio successo, il fascismo lo deve al fatto che le camicie nere donavano molto al viso. No, io sono iscritto al partito socialista. Sono stato e anche due volte candidato alle elezioni e tutte e due le volte, non so perché, ho fatto cilecca.

(Poi all’ironica domanda di Mirella Delfini se non voglia, come  vorrebbe Germi, smettere di fare il regista per diventare Capo del governo o suonatore di chitarra, Monicelli attacca a parlare bonariamente di Pietro Germi come di un matto; per lui anche Germi come Fellini, è un cantautore. E poi ha il difetto dei geni o genialoidi: è poco intelligente.)
Poi io scrivo tutto e voi finite per litigare. Mi dispiace.

Ma Germi e io litighiamo sempre. Ci diciamo cose terribili, ci rinfacciamo i film, io gli dico che i miei sono più belli dei suoi, che lui è il peggiore di tutti registi eccetera. Facciamo certe chiassate, con la gente che passa per strada e si ferma a sentire,e noi che urliamo sempre più come due bottegai e alla fine facciamo le scommesse perfino sugli incassi. Eh devo dire che questa volta con Divorzio all’italiana, Germi mi ha messo in un guaio.

Ma Germi e Antonioni, per esempio, che litigano sempre, non si vogliono bene affatto, almeno credo. Germi ha detto che lui, Antonioni lo ammazzerebbe. Eh?

Ma Germi e Antonioni non litigano. È Germi che ce l’ha con Antonioni. Credo perfino che Michelangelo sia un po’ stupefatto di quest’odio. Del resto lui si stupisce di tutto, perché pensa di essere un genio e si meraviglia quando la gente non lo tratta da genio. Lei conta di intervistarlo?

Conto di intervistarlo, ma ho l’impressione che faccia un po’ la starlette capricciosa. So che dà appuntamenti alla gente e poi non la riceve, che Monica Vitti è costretta a mettere fuori di casa la gente invitata perché lui, all’improvviso, decide che non la vuole più vedere. E questo non è serio.

No questo non è serio. Però lui è importante. Forse è vero che è un genio. Lei ha visto qualcuno dei suoi film?[…] Antonioni è un genio. Io li capisco sempre i suoi film. Cosa c’è che non si capisce? Le dirò di più: li farei volentieri anch’io, i film che fa Antonioni. Ma non è il mio genere e non mi ci metto neppure. Per conto mio preferisco che i film che faccio siano chiari. Però lui è un genio. Ha continuato per anni a fare queste cose, attaccato da tutti. Ora che ha un gran successo vuol dire che la gente lo capisce. Non ci crede? Va bene, diciamo allora che sono film di transizione: serviranno ad arrivare a qualche altra cosa, ma sono indispensabili. È indispensabile un Antonioni, nella storia del cinema.

Le piacerebbe cambiare mestiere?

Cambiare mestiere io? Ma se questo è il lavoro più divertente che ci sia. É come fare il capitano di una nave: ogni film è un nuovo viaggio, cambiano i passeggeri , la rotta, il tempo, i marinai, la merce che si imbarca. Nulla di più divertente. Ci vogliono però certe doti da di carattere, più che di cervello. Bisogna essere capaci di prendere decisioni alla svelta, di imporre la propria volontà, di trattare le persone con diplomazia , di afferrare il timone quando le cose si mettono male, di farsi vedere poco e di stare molto nel ”quadrato” lasciando che se la sbrighi il nostromo. L’intelligenza conta meno. Anzi a volte è nociva. È meglio essere un genialoide come Germi che capisce solo le cose che vuole capire. Uno che è intelligente, invece, vede tutti gli aspetti della verità e finisce per farsi rovinare dall’autocritica o dal possibilismo.

Lei com’è, genialoide o intelligente?

Purtroppo io sono intelligente. Così faccio una gran fatica. Difatti non mi riesce mai di mettere su più di un film ogni due anni, o tutt’al più ogni anno e mezzo.