Nuova incursione di Cinefilia Ritrovata nella passione per l’artigianato cinematografico. Ci guida, al solito, Federico Magni, con un articolo sul cappa e spada hollywoodiano:

I fondamenti della scherma cinematografica vengono fatti risalire a Henri J. Uyttenhove (1878-1950). Diplomatosi all’Istituto Militare Belga di Educazione Fisica e Scherma, giunse negli Stati Uniti nel 1907 e divenne istruttore di scherma al Los Angeles Athletic Club. Uyttenhove istruì John Gilbert in cerca di vendetta nei panni di Monte Cristo (1922) e coreografò gli scambi tra Lewis Stone e Ramon Novarro in tre pellicole di Rex Ingram: Il prigioniero di Zenda (The Prisoner of Zenda, 1922), Trifling Women (1922) e Scaramouche (1923). Il divo che più ebbe a giovarsi dell’operato di Uyttenhove fu Douglas Fairbanks, nel periodo in cui tentava il passaggio dalle commedie ottimistiche ed edificanti ai film in costume. La collaborazione tra Fairbanks (che era socio del Los Angeles Athletic Club) ed il maestro belga ebbe inizio con Un moderno moschettiere (A Modern Musketeer, 1917) e contribuì in modo decisivo al successo de Il segno di Zorro (The Mark of Zorro, 1920). I tre moschettieri (The Three Musketeers, 1921) e Robin Hood (1922) sancirono l’ascesa dell’interprete ad emblema del genere cappa e spada. Quando Fairbanks indossò di nuovo la casacca di D’Artagnan ne La maschera di ferro (The Iron Mask, 1929), l’allestimento dei duelli era passato nelle mani di Fred Cavens, che gestì anche la prima avventura sonora delle guardie del re. Prodotto dalla RKO I tre moschettieri (1935) cercò di evitare il confronto con Fairbanks, infatti D’Artagnan era intepretato dall’esordiente Walter Abel, la cui carriera sarà permeata di ruoli assai distanti dalla veemenza del personaggio. Cavens ritrovò D’Artagnan (Warren William) nella versione de La maschera di ferro (The Man in the Iron Mask, 1939), diretta con stilemi horror da James Whale, ma dovette aspettare il 1952 per riaccostarsi ai nomi di Athos, Portos e Aramis. I figli dei moschettieri (At Sword Point) aveva come protagonisti Maureen O’Hara (nella parte della figlia di Athos) e Cornel Wilde, uno dei pochi attori a vantare una consistente preparazione nella scherma, che lo aveva portato a far parte della squadra statunitense di sciabola alle Olimpiadi del 1936. Nelle stesse Olimpiadi, la squadra belga di fioretto schierava, tra i suoi componenti, il giovane Jean Luis Heremans. Detentore di titoli nazionali in tutte le discipline (spada, fioretto e sciabola), Heremans (1914-1970) divenne istruttore al Circolo Reale di Scherma di Bruxelles prima di traferirsi negli Stati Uniti nel 1946 per succedere a Uyttenhove al Los Angeles Athletic Club. Due anni iniziò la collaborazione con la Metro-Goldwyn-Mayer, proseguendo così la tradizione cinematografica dei grandi maestri belgi (Uyttenhove era nato a Herck-la-Ville, Cavens a Bruxelles ed Heremans era originario di Farciennes). Il suo esordio avvenne con uno sfarzoso adattamento de I tre moschettieri, in parte pensato come veicolo per presentare Lana Turner nello splendore del Technicolor. La regia era di George Sidney ed i valori tecnici erano di prima qualità, come la sgargiante fotografia di Robert Planck (che aveva firmato le immagini di La maschera di ferro di Whale e Nostro pane quotidiano di Vidor) e l’energico montaggio di Robert J. Kern e George Boemler. Lo storico Rudi Behlmer nel saggio Swordplay on screen (Films in Review, Luglio 1965, pg 362-75) annota che ‘Rodolfo Valentino duellò con la grazia di un ballerino in Monsieur Beaucaire [1924]’  e quanto il connubio tra danza e scherma potesse essere produttivo lo dimostrò lo scontro iniziale tra i moschettieri e le guardie del cardinale nei giardini del Lussemburgo (in realtà i Giardini Bush a Pasadena) ed in particolare il duello tra D’Artagnan ed il capo delle guardie Jussac (Sol Gorss). Coniugando al meglio le proprie doti acrobatiche con le coreografie di Heremans, Kelly dipinse un D’Artagnan che univa l’irruenza guascone dell’eroe letterario alla sorridente spavalderia di Fairbanks. Del resto, l’ombra dell’interprete de Il ladro di Bagdad era già presente nella precedente interpretazione di Kelly Il pirata (The Pirate, 1948), per ammissione stessa dell’attore. A fargli degna compagnia, sia negli scambi di battute che nelle tenzoni, Gig Young (Porthos), Robert Coote (Aramis) e soprattutto Van Heflin, un Athos di rimarchevole intensità. Nel film sono presenti altri scontri all’arma bianca e scene ad alto tasso acrobatico (una di queste, virata in bianco e nero, trovò spazio in Cantando sotto la pioggia, 1952). Heremans non solo progettò i duelli ma vi prese parte in vari ruoli: nella divisa di una guardia del cardinale cade trafitto da Kelly su una spiaggia rocciosa con le onde a lambirlo, un richiamo alla fine del pirata Levasseur (Basil Rathbone) in Capitan Blood (1935).

Il duello tra i moschettieri e le guardie di Richelieu durava cinque minuti, un record che Heremans e Sidney superarono con Scaramouche (1952), dove l’eroe Andre Moreau (Stewart Granger) ed il marchese de Maynes (Mel Ferrer) incrociavano le lame per sei minuti e mezzo. La resa dei conti aveva luogo all’interno del Teatro Ambigu, con gli sfidanti che si affrontavano percorrendo palchi, corridoi, vestiboli, scaloni fino al proscenio. Come ne I tre moschettieri, anche qui gli interpreti gareggiano in levità ed eleganza e, se questo era quanto ci si poteva aspettare da Granger, la sorpresa fu un Mel Ferrer disinvolto e perfettamente credibile con la spada in mano. Heremans coordinò il duello alla sciabola tra Granger e James Mason nel rifacimento a colori de Il prigioniero di Zenda (The Prisoner of Zenda, 1952), la tenzone con spadoni medievali tra Mason e Robert Wagner ne Il principe coraggioso (Prince Valiant, 1954), gli scambi alla spada tra Edmund Purdom e David Niven in Il ladro del re (The King’s Thief, 1956) ed allenò Lana Turner per Diana la cortigiana (Diana, 1956) e Grace Kelly per Il cigno (The Swan, 1956) – nella pellicola l’istruttore di scherma è Louis Jourdan. In uno dei suoi ultimi incarichi cinematografici, Heremans preparò Stewart Granger in vista della trasferto in Italia per Lo spadaccino di Siena (The Swordman of Siena, 1962).

L’invocazione ‘Tutti per uno’ ritorna sugli schermi nel 1973, quando viene distribuito I tre moschettieri (The Three Musketeers), prima parte di una versione di quattro ore del romanzo di Dumas diretta da Richard Lester (la seconda parte, intitolata Milady – I quattro moschettieri, esce l’anno successivo). Michael York è un credibilissimo D’Artagnan, Oliver Reed un sanguigno Athos, Portos ha la grinta di Frank Finlay ed Aramis l’eleganza di Richard Chamberlain. Stavolta i quattro protagonisti affrontano le guardie del cardinale nella corte di un convento carmelitano, districandosi in mezzo a panni stesi, e l’allestimento dei duelli è affidato a William Hobbs, il cui approccio realistico ben si adatta alla vena dissacrante di Lester. Nato a Hampstead (Londra) nel 1939, Hobbs porta avanti la formazione agonistica parallelamente all’attività teatrale all’Old Vic. Diviene maestro d’armi per la National Theater Company di Laurence Olivier ed il palcoscenico rimane al centro della sua attività. Il suo nome è spesso collegato a messe in scena shakespeariane, in particolare all’Amleto, inclusa la versione interpretata a Broadway da Ralph Fiennes nel 1995, che vale il premio Antoinette Perry (Tony) al protagonista. Le tragedie del Bardo lo vedono all’opera anche nel cinema, dall’Otello (Othello, 1965) con Olivier, al Macbeth (1971) di Polanski, all’Amleto (1990) di Zeffirelli con Mel Gibson. Nello stile di Hobbs l’attitudine al realismo non risiede solo nel rispetto storico delle armi e, per quanto possibile, delle tecniche, ma altresì nel rendere appieno la fisicità degli scontri, caratteristiche che si ritrovano, tra gli altri, nel duello tra Liam Neeson e Tim Roth in Rob Roy (1995), nelle sfide ricorrenti de I duellanti (1977), fatte di attese guardinghe e scambi fulminei, e nel confronto tra Robin Hood (Sean Connery) e lo sceriffo di Nottingham (Robert Shaw) in Robin e Marian (Robin and Marian, 1976), dove gli eroici contendenti arrancano sotto il peso degli anni e delle armi.

Le strade (cinematografiche) di Hobbs e dei moschettieri si incrociano di nuovo in Il ritorno dei moschettieri (The Return of the Musketeers, 1989) sempre con la regia di Lester ed il cast originale, funestato dalla morte sul set del veterano Roy Kinnear per una caduta da cavallo, ed in La maschera di ferro (The Man in the Iron Mask, 1998) che, a parte l’interpretazione di Leonardo Di Caprio nel doppio ruolo del re Luigi XIV e del suo gemello Philippe, si configura come una occasione sprecata nonostante un cast prestigioso (Jeremy Irons, John Malkovich e Gerard Depardieu come Aramis, Athos e Portos). Occasioni di maggiore rilievo vengono offerte a Hobbs con le gesta dei Cavalieri della Tavola Rotonda in Excalibur (1979) e del capitano Navarre (Rutger Hauer) in Ladyhawke (1985), le tenzoni fronteggiate dal Visconte di Valmont (John Malkovich) in Le relazioni pericolose (Dangerous Liasons, 1988) e le sfide in rima declamate da Gerard Depardieu in Cyrano de Bergerac (1990), prova intensa che vale all’attore il premio a Cannes e la nomination all’Oscar. José Ferrer aveva vinto la statuetta per lo stesso ruolo nel 1951, in quell’occasione maestro d’armi era Fred Cavens e l’opponente che Ferrer affronta nella prima disfida (‘giusto al fin della licenza io tocco’) era il figlio di Cavens, Albert.

A completamento di questo breve excursus è doveroso citare Denis Loraine, che firmò il duello con spadino e pugnale tra Laurence Olivier e Terence Morgan nell’Amleto (1948) diretto dallo stesso Olivier; Patrick Crean, il primo prestigioso maestro d’armi inglese (Il principe di Scozia / The Master of Ballantrae, 1953; Gli arcieri di Sherwood / Sword of Sherwood Forest, 1960) e Enzo Musumeci Greco che, dai film storici di Blasetti (Un’avventura di Salvator Rosa, 1939; La corona di ferro, 1941) ai kolossal di Cinecittà (Ben-Hur, 1959; Cleopatra, 1963) fino al Deserto dei tartari (1976) di Zurlini, ha mantenuto alta una illustre tradizione nazionale.

Federico Magni

 

L’autore ringrazia Viviane Heremans Moekle per le preziose informazioni su suo padre Jean Heremans.