L’arrivo del regista rumeno a Bologna permette non solo di godere di una retrospettiva della sua opera, con la versione completa, rumena, di I racconti dell’età dell’oro, ma anche di vedere l’anteprima del suo ultimo Un padre, una figlia. Per quest’ultima occasione, segue una piccola antologia critica del film, Palma d’oro per la Miglior Regia, Festival di Cannes 2016.

“Il film è una deambulazione, un vagare confuso. Un elemento che si determina evidentemente solo dopo un certo periodo poiché grande è l’affanno, la fatica del protagonista, un medico della sanità pubblica di mezz’età, nel mantenere una linea dritta, onesta e semplice, poggiata su elementi basici. Perché tutto intorno a lui si sfilaccia in una sorta di paradossale corruzione umanistica, di cui sono paradigmatiche certe espressioni. Mungiu esprime tutto ciò con grande maestria, senza essere didascalico, lasciando fiorire le situazioni con naturalezza grazie a queste deambulazioni, un vagare narrativo ma di cui l’autore, al contrario dei personaggi, conosce le linee di fondo. Il medico non è certo un moralista bigotto, ma i tanti piccoli fatti che si succedono, come l’aggressione per strada a sua figlia o l’operazione di trapianto di fegato a un ex doganiere che ha una dubbia fama, finiscono per diventare un continuo intralcio al suo percorso lineare, che da semplice diventa tortuoso. Un incubo notturno, dove c’è tutto e non c’è nulla. Se in 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni, la Romania sembrava un paese fisicamente deserto, qui il deserto è più di valori, e ci si chiede se un progetto di società e convivenza esista ancora. Un po’ come in Italia, per certi versi. Povero medico. Come assistere non solo i pazienti ma anche chi semplicemente gli sta a cuore se tutto marcisce non si sa come, per via di quella deambulazione confusa? Come uscire da questo dedalo contraddittorio di corruzione, autoassolvimento, povertà e necessità di un’istruzione? Alla fine tutto sembra mettersi a posto. Ma cosa dice il fotografo alla cerimonia di laurea della figlia? “Sorridete! Siate felici!”. (Francesco Boille, Internazionale)

 

“Ammirevole Bacalaureat di Cristian Mungiu, dove gli esami di fine liceo (il bacalaureat del titolo) della diciottenne Eliza (Maria Dragus) diventano lo spunto per una riflessione accorata e malinconica sui sogni e la moralità di tutto il Paese. (…) Mungiu (…) porta lo spettatore a riflettere sulla vischiosità di certe situazioni e comportamenti. Ne esce un quadro di pessimismo diffuso, dove i sogni di rinnovamento (…) si sfarinano di fronte a ostacoli e pressioni, e gli ideali che si vorrebbero trasmettere alle nuove generazioni dimostrano di reggersi su basi fragilissime.” (Paolo Mereghetti, Il Corriere della Sera)
“Al centro c’è un medico di mezz’età, Romeo, che vive in un piccolo paese della Transilvania e ha cresciuto la figlia Eliza con l’idea che, una volta diplomata con buoni voti, si sarebbe trasferita a vivere e studiare all’estero. Il gran giorno dell’esame è arrivato ma, prima di entrare a scuola, Eliza viene aggredita da un malintenzionato: nonostante riesca a uscirne indenne, l’aggressione rischia di compromettere irrimediabilmente il suo futuro e, allo stesso tempo, i piani di suo padre. Già vincitore della Palma d’oro nel 2007 con 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni e del premio per la miglior sceneggiatura nel 2012 con Oltre le colline, Mungiu torna sulla Croisette con un potente dramma morale, che mette al centro una serie di scelte non facili e capaci di far riflettere (anche) lo spettatore: per risolvere la situazione, Romeo dovrà necessariamente andare contro a quei principi che ha insegnato a Eliza fin da quand’era piccola. L’aggressione, inoltre, si trasforma in un brusco ingresso nell’età adulta per la ragazza, diversi problemi familiari pregressi vengono alla luce ed Eliza si scopre improvvisamente priva delle certezze che aveva fino a quel momento. Notevole tanto nella regia quanto nella sceneggiatura, Bacalaureat, oltre all’efficace disegno complessivo, colpisce per alcune singole sequenze di grande spessore: in primis quella in cui Eliza è chiamata a riconoscere colui che l’ha aggredita. Impeccabili anche gli interpreti, a partire dall’eccellente Adrian Titeni (Rome) che rientra di diritto nella rosa dei favoriti alla Palma come miglior attore”. (Andrea Chimento, Il Sole24ore)

 

“Il regista porta alle estreme conseguenze un discorso che aveva iniziato con i due film precedenti. Se gli effetti delle sovrastrutture (la religione in Oltre le colline, 2012) esercitano un potere coercitivo sull’individuo così forte da violarne materialmente il corpo (l’aborto clandestino in 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni, 2007) qui è come se il sistema medesimo (il corpo statale) fagocitasse se stesso. E così come nei due film precedenti anche qui manca una visione che sia totale, che abbracci i luoghi gli eventi e le situazioni narrative con uno sguardo di insieme. La macchina di Mungiu, che sta incollata ai personaggi e gli spazi, piuttosto che descriverli, preferisce attraversarli (rendendoli automaticamente abitati), vuole che la propria parzialità sia elemento integrante della storia che racconta. Viene in mente Niente da nascondere (2005) di Haneke. E non solo per la dinamica degli atti vandalici misteriosi che la famiglia di Romeo subisce, ma anche per quell’atteggiamento di costruzione della realtà viziato sempre da uno sguardo filtrato. Gli specchi nei quali vediamo di continuo restituiti i corpi dei personaggi, i giochi di riflessi con i vetri (da applausi quello alla stazione di polizia quando Eliza deve riconoscere l’uomo che l’ha aggredita) di cui Mungiu riempie i lunghi piani sequenza sono la testimonianza dell’impossibilità (che è anche necessità) di guardare la realtà con occhi genuini, puri. Un metro di osservazione del quale il regista ci rende partecipi sin da subito riassumendolo in un attimo tanto fugace quanto straordinario. La mdp, posta dentro l’auto del protagonista inquadra l’esterno attraverso un finestrino. Pochi istanti dopo un sasso infrange il vetro che, disintegrandosi resta tuttavia attaccato al montante della portiera. La camera non si sposta, l’auto nemmeno, l’unica cosa che cambia è l’oggetto del nostro sguardo, ciò che prima osservavamo (il mondo all’esterno dell’auto) e che ci sembrava nitido ora è increspato, opalescente, invisibile. Come se a rompersi non fosse il finestrino, e nemmeno l’obiettivo della mdp o lo schermo del cinema. Ma il nostro stesso occhio. (Lorenzo Rossi, Cineforum).

 

“Il fatto è che Mungiu, come sempre, mette il suo cinema sotto pressione, obbliga i suoi personaggi a confrontarsi con la spinta di un mondo che se ne infischia degli equilibri a fatica costruiti, dei recinti di benessere, delle clausure evasive. E che, soprattutto, non ammette principi, regole morali (o conventuali), desideri e aspirazioni. Obbligando gli individui a scelte dolorose, a illeciti più o meno gravi, a compromessi meschini. Pena l’esclusione. Tutta l’odissea di Romeo, ossessionato dall’esame di diploma della figlia Eliza, è un racconto di corruzione, di scambi interessati, di patteggiamenti e richieste illecite, raccomandazioni e menzogne. Sogna per la figlia un futuro diverso, fuori dalla Romania, paese “incivile”, dal suo sistema clientelare soffocante, dai suoi conflitti d’interesse. Ma ogni sua azione lo spinge sempre più addentro questo mondo oscuro, tra le maglie di questa ragnatela di relazioni compromissorie. In realtà, nulla crolla irreparabilmente. Proprio perché tutto resta invischiato nella mediocrità diffusa di una realtà che non ammette eccezioni. Fossero anche quelle del talento, dell’eccellenza, della meritocrazia pur sempre soggetta alla valutazione del sistema, e quindi alla conformità. Cioè che viene meno è la purezza dei principi e la possibilità di costruire un futuro diverso, nella misura in cui sui figli viene proiettata la lunga ombra del cielo plumbeo dei padri. Bacalaureat racconta l’impasse di una società inguaribilmente corrotta e sembra avere la chiarezza cristallina di un pamphlet. Ma Mungiu non procede per assiomi astratti o dimostrazioni a tesi. Affonda lo sguardo sulle azioni concrete, le scelte e le crisi dei suoi personaggi, e scopre, a partire dall’individuo, il risvolto politico e sociale. Non sottolinea il dramma, non scarta, non infiamma, ma come sempre lavora sui pedinamenti, sui dialoghi in piano sequenza, su scene che si aprono al tempo reale, sull’intensità emotiva della durata. Il suo cinema sembra non far vedere nulla, eppure mostra tutto, quasi fosse uno specchio impudico e implacabile. Sembra soffocante al pari del mondo che racconta. Ma si anima di un’inquietudine vertiginosa, come fosse attraversato da un germe di follia esplosiva. Quella che alimenta il fuoco della nostra rabbia e della nostra disperazione. Quella che spacca il vetro, lasciando fluire tutta la densità del reale nella gabbia dell’inquadratura”. (Aldo Spiniello, Sentieri Selvaggi)

 

“Mungiu creates the queasy possibility that the attempted rape itself is part of a conspiracy of violence driven by envy or revenge – or even that the universe itself is punishing him, with intimate horror, for sexual misdeeds. The key scenes with Aldea and his daughter are almost unwatchably tragic: with no time to lose, he has to induct her into a world of shame – which is the price of survival. British audiences will wince as Aldea tells her that she has to wise up, because Romania isn’t like the UK, where there is no cronyism or backscratching. Well maybe. Graduation is an intricate, deeply intelligent film, and a bleak picture of a state of national depression in Romania, where the 90s generation hoped they would have a chance to start again. There are superb performances from Titien and Dragus. It’s a jewel in this exceptionally good Cannes lineup” (Peter Bradshaw, The Guardian)