In questi giorni abbiamo l’opportunità di vedere numerose autocromie realizzate dai Lumière nella mostra Lumière! L’invenzione del cinematografo (a Bologna fino al 5 marzo). I figli di Auguste Lumière, la sorella France, Louis Lumière, gli interni della villa di Monplaisir, le passeggiate tra le vigne e in spiaggia a La Ciotat, come già era accaduto per il cinematografo, sono i componenti dell’intera famiglia ad essere ritratti, soggetti prediletti, testimoni e protagonisti di questo prodigio tecnico: “la reproduction des sujets avec l’infinie variété des couleurs qu’ils présentent dans la nature”.

In uno dei manuali stampati da la Société A. Lumière & ses Fils (1910) in cui viene illustrato l’uso delle lastre Autochromes, prima di scoprire quali sono le Principe de la méthode Lumière, troviamo un dettagliato sunto delle principali invenzioni e i relativi brevetti che hanno preceduto questa scoperta fondamentale per la diffusione della fotografia a colori. Ne La photographie des couleurs et les plaques autochromes, titolo del libretto di introduzione alla tecnica, si parla del primo metodo a cui fanno riferimento i Lumière per raggiungere il loro scopo, ovvero “la reproduction photographique des couleurs mise à la portée de tous”. La fotografia tricromatica teorizzata da Charles Cros e Louis Ducos du Hauron nel 1869, senza entrare troppo nei dettagli, prevede l’utilizzo di tre lastre di vetro, tre negativi realizzati con tre diversi filtri, uno per ogni colore complementare, “le rouge, le jaune et le bleu”; la sintesi tricroma si ottiene con l’accurata sovrapposizione delle tre monocrome che vanno a comporre la fotografia a colori. Questo processo troppo laborioso e delicato non ne consente la diffusione su larga scala, lo stesso accade nel 1891 con il metodo diretto interferenziale di Gabriel Lippmann il quale semplifica la tecnica utilizzando una sola lastra e una superficie di mercurio che riflette la luce, occasione nella quale i Lumière mostrano il loro interesse verso la cromofotografia producendo delle speciali lastre.

Servono ancora diversi anni e numerosi tentativi prima che Louis Lumière depositi il brevetto de “les plaques autochromes”, siamo nel 1903 e finalmente, grazie all’impiego della fecola di patate, “la Méthode Lumière pour la Photographie direct des objects avec leurs couleurs naturelles”, sembra aver raggiunto la giusta praticità tecnica da poter essere commercializzata. Pur soddisfacendo quasi esclusivamente un ristretto pubblico di fotografi amatoriali e tipografi, fino al 1935, prima che la fotografia su carta si imponga definitivamente per la sua versatilità, ogni giorno lo stabilimento Lumière di Monplaisir produce più di seimila lastre autocrome, la loro larga diffusione fa si che oltrepassino i confini europei come dimostrano i percorsi artistici di Alfred Stieglitz e Edward Steichen.

In Storia sociale della fotografia (2000) Ando Gilardi illustra il “sublime” procedimento dell’autocromia fissandone i principali passaggi: “la lastra è cosparsa nell’intimo da una pellicola sensibile alla luce. Su questa si sparge una quantità incalcolabile di gemme rappresentate da cellule di fecola di patata, ciascuna delle quali è stata trasformata colorandola in un microscopico filtro di selezione (o rosso, o blu o verde). La luce nella camera oscura arriva in quel “punto”, (…) sotto il microfiltro si scurirà nello strato sensibile un “punto” di grigio di forza equivalente alla intensità della luce selezionata.

Poi, e questa fu la più bella parte dell’invenzione, lo strato fotosensibile viene sviluppato “autopositivamente”, vale a dire che lo stesso fototipo negativo si autoinverte e risulta positivo. Guardando in “controluce” ogni minutissimo dosaggio della selezione darà alla “luce” del “contro” la forza giusta per trasformare il microfiltro colorato, che resta al suo posto, in una invisibile tessera la quale con tutte le altre rappresenterà l’immagine ottica a mosaico totale”.

Le autocromie sono lastre fragili, pezzi unici, come le vetrate svelano le proprie peculiarità solo in controluce, quando l’opacità e la trasparenza delle superfici si fondono rivelandone la realtà pittorica, non pittorialista. Questa è la vita quotidiana vista attraverso un filtro cangiante, poesia visiva sia che si tratti di un déjeuner sur l’herbe o di uno scatto tra le trincee della Marne, mostrando “les couleurs de la guerre”.

Un neoimpressionismo fotografico in cui i tocchi di pennello di un Seurat o di un Signac lasciano il posto ai granelli di fecola di patate stesi sulle lastre, che, se proiettate e ingrandite mostrano la tessitura granulare tipica del pointillisme e come questo pongono le proprie basi nelle teorie sul colore di Michel-Eugène Chevreul, famoso per la pionieristica fotointervista di Nadar.

L’effetto “che trae l’occhio da una autocromia, in modo evidentissimo se proiettata, è il medesimo di quello che si riceve guardando, ad esempio, un quadro del Segantini, del Previati, (…) l’arte pittorica e la scienza cromofotografica si sono incontrate in una stessa e unica tecnica”; in Francia il puntinismo, in Italia il divisionismo, facce di una stessa medaglia nelle quali intravedere affinità con l’autocromia, così spiega Luigi Pellerano nel suo manuale Hoepli dal titolo L’autocromista e la pratica elementare della fotografia a colori (1914) dedicato ai “fratelli Augusto e Luigi Lumière, (…) frutto della personale soddisfazione di molte ore dilettevoli, dipingendo il vero – pennello il sole, tavolozza le fecole colorate – inneggiando all’autocromia”. Molti di noi quest’anno, forse senza saperlo, portano un’autocromia nel portafoglio, la tessera Amici della Cineteca, opportunità preclusa ai “Sostenitori” di Mitchum e Bardot.

Cecilia Cristiani