Non c’è materia più ricca della vita per raccontare – o inventare? – storie. Non c’è nulla come raccontare storie per ingannare il tempo. Quella di Piera degli Esposti, tanta, tragica, allegra, da sognatrice testarda era stata in parte raccontata e sublimata già più di trent’anni fa, in un romanzo, scritto insieme all’amica Dacia Maraini che si intitolava Storie di Piera e che divenne, nel 1983,  un film girato dal compagno di vita Marco Ferreri con protagoniste principali nel rapporto madre-figlia Hanna Shygulla ed Isabelle Huppert. Trent’anni anni dopo arriva il documentario del sardo Peter Marcias Tutte le storie di Piera che prosegue e allarga il racconto, ma stavolta scavando e facendo cinema dal vero. Il doc, presentato ieri sera ad inaugurare Visioni italiane, dopo il Festival di Torino, inizia, da qui, da Bologna e dalla Cineteca, il suo percorso di distributivo, proprio perché a Bologna, città di porte, come ama dire Piera, è nato il suo cammino nell’arte e nella vita. Un cammino artistico difficile, pieno di rifiuti e ostacoli all’inizio, di porte, appunto, anche chiuse in faccia, ma fatto con tenacia, “con molta ossessione ed anche in modo molto artigianale” e capace di ispirare per la sua impervia non solo i giovani attori, ma i giovani tout-court che si misurano con il mondo. Un percorso proceduto in avanti sempre con curiosità e gioia bambinesca verso il nuovo e le sfide, ma anche con dolore per il difficile passato infantile, per una madre amatissima ma problematica, per l’assenza di Marco Ferreri, vissuto con fragilità e passione, con la sottile ansietà nei confronti di se stessa di non essere mai abbastanza, di non avere avuto l’autorevolezza richiesta, lei che ai nostri occhi è un gigante. Una battaglia, quella di Piera, che dura da tutta la vita, per cercare di fermare il tempo nella paura di non riconoscersi più e nella paura della morte, sempre esorcizzata dall’arte, con l’illusione di avere fermato il tempo un po’ alla volta ogni volta che è diventata un’altra su un palcoscenico o davanti alla cinepresa.

Come racconta lei stessa in Tutte le storie di Piera recitare è stata anche una missione, perché il compito dell’attore è “quello di consolarci dei nostri lutti, degli abbandoni, delle malattie, della vecchiaia, della morte. Può consolare facendo ridere come Totò ma deve riuscire ad entrare, come faceva lui nelle profondità linguistico ripetitive distorte dalle sue parole. Oppure come Eduardo che, avendo raggiunto quella profonda conoscenza di sé, era riuscito a consolare anche solo esibendo la propria persona anche in maniera impudica. Per essere attori non mi sembra sufficiente la bella dizione, la bella voce, la disinvoltura, l’elegante guanto narcisistico porgere, ma calarsi nel proprio buio profondo, per risalire poi, portandosi alla luce”.

Marcias ha seguito questa grande attrice, prima di tutto, con l’amore e la devozione di un fan ed ha saputo raccontare Piera domandando ad altri e facendo parlare di lei i più illustri tra i nostri registi italiani. Dunque oltre ad essere un’indagine biografica è un film che gioca anche sulla relazione regista-attrice, e su come i registi stessi interpellati davanti a duna macchina da presa, siano a loro volta capricciosi o virtuosi e mettano in scena loro stessi davanti alla sguardo altrui. Nell’incontro di ieri sera dopo alla proiezione, Peter Marcias e Piera degli Esposti hanno parlato del documentario e di pezzi di vita dell’attrice, con molti momenti emozionanti per Piera, per i Bolognesi in sala e per il pubblico di Visioni Italiane.Dal punto di vista tecnico e deontologico Tutte le storie di Piera è un documentario con tutti i crismi. Come ha raccontato ieri sera Peter Marcias, lungo l’incontro, la prima fase della lavorazione non è avvenuta con riprese video, bensì con molti microfoni a registrare vari dialoghi-interviste fiume che il regista ha rivolto all’attrice per prepararsi e per poter catturare con naturalezza i nodi della vita di Piera, misurando e non perdendo ogni singolo mutamento della sua voce, con l’obiettivo di riuscire a capire cosa la coinvolgeva, turbava o entusiasmava di più nel raccontare la sua vita. Allo stesso tempo, durante queste conversazioni, Marcias ha chiesto a Piera di parlargli dei suoi registi, quelli di sempre o quelli con cui collabora da poco, ed ha così ricavato una serie di aneddoti – la chiameremmo ricerca delle fonti se si trattasse di un reportage – e che poi con tecnica giornalistica è riuscito a far raccontare a loro stessi, semplicemente indirizzandoli con le domande giuste. Ogni regista ha parlato spontaneamente proprio di ciò che Piera aveva svelato lei stessa a Peter Marcias e questo ha evitato forzature in stile docufiction o canovacci da seguire. Di seguito riportiamo qualche imperdibile stralcio.

Farinelli: Piera, tu forse puoi raccontarci come ti sei sottomessa allo sguardo di Peter.

Degli Esposti: Mi è sembrata una cosa straordinaria che Marcias sia riuscito ad indirizzare non solo me, ma anche i registi, che sono attori anche loro in questo documentario; dei registi così chiusi, in un certo senso, come Nanni Moretti, Paolo Sorrentino, Bellocchio, i Taviani, Tornatore e Lina Wertmüller, e poi c’è Ferreri che campeggia, anche se non c’è più, naturalmente. Questa sera sono particolarmente emozionata di essere nelle mia città, con i protagonisti che sono per me della mai vita, che sono imiei familiari che ho il piacere di avere qua in sala. E poi credo che Marcias sia riuscito a fare anche un’altra cosa importante. Dell’avanguardia teatrale degli anni ’70 soltanto Carmelo Bene si filmava e aveva intuito la capacità del video, noi un po’ più poveretti, dico sempre, delle cantine (teatrali n.d.r), gli scantinati, non avevamo né i soldi né i mezzi. Tra la mia vita da scantinato e la vita al Teatro Stabile dell’Aquila è riuscito far parlare le fotografie e ha fatto rivivere il mito teatro che altrimenti sarebbe rimasto solo un ricordo solo per chi ha lo ha visto. Aggiungo un’altra cosa: io sono, come dico, un innamorato della mia città, e da innamorato me la sono portata dietro. Io dicevo sempre con mio padre: “Ma perché devo andare in un’altra città (Roma n.d.r.) per fare l’attrice? Se fossi un calzolaio, un falegname, potrei prendere un negozietto!” e mio padre diceva “I registi sono là, le scuole sono là: devi andare ad abitare là!”. Ed io avevo questo dispiacere di lasciare la mia coperta di Linus…questa città che mi ha protetto. Ma la mia città mi ha fatto una sorpresa: mi ha continuato a proteggere facendomi portare dietro, nella testa, le sue strade; quando avevo paura di non aver memoria mi venivano in mente:Via Marini, i colli, Via Sabbioni, le porte. Per esempio le porte….io abito a Roma ormai da moltissimo e e ogni tanto dico ma fuori da che porta è? E mi rispondono ma di che porta parli? Ed io rispondo che io vengo da un città che ha le porte e dunque parlo per quella città.

Farinelli: Peter,hai già lavorato con Piera in I bambini della sua vita e questo è il secondo film che hai girato con lei. Parlacene un po’.

Marcias: Io ero innamoratissimo di Piera, avevo visto tutti i  suoi film e la seguivo da tanto tempo; per me è stato un onore spulciare nella sua vita e lei è stata gentilissima nell’accordarmi di scavare. Forse sono ancora più emozionato di lei, anche di riflesso, perché stiamo raccontando Piera a Bologna e perché Piera è anche un po’ sarda come me per via del suo legame forte con la Sardegna.

Farinelli: Piera in quale dei molti ritratti ti ritrovi di più?

Degli Esposti: Mi ha molto colpito quello di Tornatore, perché non mi ero resa conto che mi avesse indagata in questo modo. Le sue parole sono molto precise. Poi è chiaro che ognuno di questi grandi registi mi ha molto meravigliato con il suo ritratto. Alcuni si sono scoperti citando fatti che non avevo capito li avessero così segnati. Ci sono delle cose di questo film che mi hanno emozionato: è incredibile quando rivedi quel certo momento del set, allora ti ricordi. Mi ha colpito moltissimo il provino con Bellocchio. Bellocchio si è scatenato. Con Bellocchio abbiamo questo caso in comune, anche questa cosa, disgraziatamente, della vicinanza ad un familiare con problemi mentali, per lui suo fratello, per me mia madre. E così lui si è appassionato della figura di mia madre. Mia mamma bisogna dire che è la la grande protagonista della mia vita. Sento, e per questo mi fa piacere che in sala ci sia la mia famiglia, che con questo film mia madre sia stata veramente vendicata, perché meritava di essere così amata ed io l’ho tanto amata, talmente me la sono portata dietro. Tutti registi che hanno dimostrato grandissimo affetto nei miei confronti. Vittorio Taviani mi ha fatto complimenti per essermi resa altra come attrice, per essermi annullata, addirittura ha citato Leonardo.

Farinelli: È un grande affetto perché questi registi parlano addirittura di film degli altri, come i fratelli Taviani quando parlano della tua interpretazione in Il Divo.

Degli Esposti: Sì Vittorio Taviani mi ha fatto molti complimenti per essermi resa altra, ha addirittura citato Leonardo Da Vinci, lo devo ringraziare.

Farinelli: E’ molto vero quello che dice Vittorio Taviani, ci capita di dimenticare che sei tu, ti sai davvero annullare…

Degli Esposti: Il mestiere dell’attore è privilegiato perché nel momento in cui io magari sto male, come capita a tutti noi, di depressione, di paura, di malinconia, poi l’nazianità comporta maggiore fragilità, ecco io ho la possibilità di entrare in un latro personaggio, così non mi do più fastidio e divento altro da me. Lo dice molto bene Sorrentino, lui dice che sembravo svagata, distratta: perchè io abito molto il personaggio. Siccome sono nella mia città, dico che è proprio la mia città che mi ha dato questi toni. Dacia Maraini dice che quando recito è come un canto; ma è perché il canto appartiene alla mia città, queste strutture io le ho prese dalla mia città, sono insediate in me. Nonostante mi lamenti sempre di non avere abbastanza autorevolezza, invece questo film mi consola. Io non è che sono umile, ma non ho autorevolezza, tranne, come dicono i Taviani, la convinzione di avere un certo talento; d’altra parte come avrei retto altrimenti con tutti quei rifiuti? Questa convinzione ce l’ho, però mi sento poco autorevole e questo mi lascia una grande fragilità. Ho molto piacere che il tour del film inizi da Bologna perché giustamente è da qui che deve cominciare.

Farinelli: Peter come è andata la lavorazione del film?

 Marcias: Dalle reazioni di questi grandi personaggi alla richiesta di un incontro ho percepito subito che c’era una grande devozione nei confronti di Piera che poi è anche la mia. Non è una vergogna dire che che i registi provano devozione per certe attrici. Ricordo le telefonate con Tornatore, con Sorrentino: erano tutti felicissimi. Così pensavo di avere la strada spianata per girare subito, ma in realtà la lavorazione è stata molto più lunga anche per cercare di incontrarli tra un set e l’altro dei loro film. Difficilissimo invece raccontare Piera a teatro, perché ci sono pochissimi materiali di repertorio, c’era qualcosa alla Rai, allora abbiamo optato per far muovere le fotografie. Ci abbiamo messo quasi un anno tra il girare e finalizzare il film. Per me è stata un’esperienza molto bella anche per capire cosa significhi essere attori. Piera ha iniziato così e sta continuando così, c’è tutta la difficoltà, la crudezza di questi nodi, di queste porte chiuse in faccia, ma ce l’ha fatta lo stesso. Perciò credo sia un film potente per i giovani attori ma anche non-attori si parla di vita si parla di cose personali e come tramutare cose non bellissime in cose bellissime, situazioni familiari non congeniali trasformate in quest’arte bellissima. L’unico rammarico è stato di non poter intervistare Ferreri e Mengozzi.

Farinelli: Piera secondo te c’è qualcosa che manca nel documentario che avresti voluto fosse più presente?

Degli Esposti: Io volevo fare il teatro e non il cinema perché sostenevo che il cinema è centimetrale, invece a teatro potevo muovermi. Il teatro per me aveva, ed ha, la caratteristica che né il cinema, né la televisione hanno, cioè la sensazione che ogni volta che reciti una battuta sul palco di un teatro di una città diversa puoi fermare il tempo. Io avevo l’idea che in questo modo il tempo si fissasse in quei momenti sulla scena. Così facevo sempre questa lotta con il tempo, che nel documentario si vede solo in Piazza dell’Orologio a Roma, dove abito, dove l’orologio è di pietra e il tempo sembra essersi fermato. Forse non ho detto con abbastanza chiarezza del mio rapporto con il tempo. Continuo a lottare con il tempo, nonostante io sia già anziana, una lotta, dato che siamo tutti mortali, perduta. Non posso far nulla per fermarlo. Credo sempre a dei piccoli processi che mi danno l’illusione di sentire di averla vinta sul tempo, il fatto che mi regga la faccia, senza aver fatto nulla, credo di essere l’unica al mondo! oppure il fatto che l’oculista mi abbia detto che ho un buon cristallino alla mia età. E quindi ho fatto teatro cercando di fermare il tempo, ma non ci sono riuscita!