Dopo alcuni giorni di intensa retrospettiva, e contestualmente al seminario organizzato da Nomadica col regista, Pedro Costa è atteso in queste ore a Bologna per l’incontro pubblico con gli spettatori del Lumière. In particolare, sabato 23 verrà proiettato Cavalo Dinheiroinedito e presentato a Locarno nel 2014. Per contestualizzare meglio il film, a seguire proponiamo una breve antologia critica (e cinefila).

Il film, che si presenta come una meravigliosa serie di tableaux vivants dalla luce caravaggesca, rende esplicita la volontà del regista portoghese di farsi narratore di una storia che ha bisogno di essere raccontata. Attraverso una luce tutta in chiaroscuri che illumina i volti stanchi di coloro che hanno sempre vissuto nell’ombra, Pedro Costa cerca di ritrovare l’essenza di un popolo privato della sua terra e allo stesso tempo della sua storia. Un popolo la cui identità non è territoriale ma sentimentale. Ed è proprio quest’emotività, quest’umanità che viene messa in luce nel film. Fontainhas non esiste più ma le ombre che lo abitano non se ne vogliono andare, continuano ad affidare al vento le loro speranze deluse, come in un sussurro. Come tutte le anime irrequiete, quelle di Pedro Costa errano alla ricerca di una pace che gli è sempre stata negata, alla ricerca di una terra sognata, di un luogo dove vivere dignitosamente. Horse Money è un condensato di momenti tanto forti da sfiorare la dimensione epica. Un progetto estremamente ambizioso e forte che necessita tempo per essere elaborato. Con il suo ultimo film Pedro Costa dà ancora una volta luce alle ombre che abitano la sua città, scrive la storia di un popolo che non è mai esistito. Il risultato è un ritratto quasi cavalleresco, sublime, fatto di sussurri, lacrime che scorrono silenziose ed emozioni finalmente espresse anche se a fatica. Un film che va visto e rivisto.

Giorgia Del Din, Cineuropa

 

Un cinema di spettri, un cinema spettrale, lo spettro del cinema: Pedro Costa approda a Locarno per presentare all’interno del concorso internazionale Cavallo denaro (Cavalo dinheiro è il titolo originale), e con lui arrivano sulle sponde settentrionali del lago Maggiore i fantasmi delle sue opere, dominate da silenzi, ombre oscure, luci sporadiche e soffuse, movimenti immoti. Come Ventura, tremante protagonista di Cavallo denaro, l’intero cinema di Costa si aggira per foreste e squallidi ospedali, in incessante moto senza direzione apparente se non quello della riconquista dello spazio.
Emerge dal nero della notte e cerca una via di uscita dal proprio sogno/incubo, Ventura, il volto più rappresentativo del regista nativo di Lisbona: lo stesso desiderio che lo accomuna a un Portogallo tradito dalla Rivoluzione dei Garofani, destinata a mantenere solo la più evidente e immediata delle promesse – la caduta di Salazar – ma incapace di propagarsi a macchia d’olio nel corso dei decenni. Per affrontare Cavallo denaro in maniera più consapevole, al di là della conoscenza in sé del cinema di Costa, si dovrebbe avere l’occasione di rintracciare Lamento da vida jovem, il cortometraggio che il regista firmò per il film collettivo Centro histórico, presentato al Festival del Film di Roma nel 2012 e diretto anche da Aki Kaurismäki, Víctor Erice e Manoel de Oliveira – ed è bizzarro notare come a Locarno quest’anno sia stato ripescato anche Vidros partidos, l’episodio diretto da Erice per lo stesso progetto. Contenuto interamente all’interno di Cavallo denaro (per quanto con un montaggio e un utilizzo dei tempi lievemente diverso), Lamento da vida jovem conteneva in nuce tutti i punti cardine attorno ai quali ruota l’ultima fatica dietro la macchina da presa di Costa: il passaggio dalla speranza alla rassegnazione per la rivolta dei Generali, la riflessione sul peso dell’esperienza coloniale portoghese, il pianto per una gioventù perduta, non più in marcia, sconfitta dalla storia e dal tempo.

Raffaele Meale, Quinlan

 

In Cavalo Dinheiro però Costa fa un passo ulteriore, perché l’intero film è costruito come un viaggio nella mente di Ventura, un ex muratore, che era già stato protagonista di uno dei suoi film precedenti. Ventura, con la fisicità di un vecchio provato da una vita di duro lavoro e con un visibile tremolio alla mano, tiene in piedi da solo l’intero film con un’interpretazione davvero straordinaria. Il cortocircuito tra il suo corpo e la posta in palio politica del film è particolarmente evidente in una lunga sequenza significativa, quella in cui Ventura in un enigmatico ascensore parla con uno dei soldati del movimento delle forze armate responsabile della rivoluzione dei garofani. L’ideale rivoluzionario e i proletari capoverdiani di Fontainhas non si sono mai incontrati nella Storia. E si dice che quando i militari presero le strade di Lisbona liberandola da una dittatura decennale e devastante Ventura si fosse rifugiato impaurito nei boschi. I limiti di quel processo politico, la rivoluzione tradita, l’eterna questione coloniale portoghese, l’umiliazione sociale degli abitanti di Fontainhas rende il riconoscimento tra Ventura e il soldato rivoluzionario un riconoscimento mancato e tuttavia necessario, che non può che essere riportato a una pratica politica rivoluzionaria per il futuro. Non solo una sequenza magnifica dal punto di vista dell’interpretazione, ma anche una delle più belle riflessioni politiche viste al cinema nel 2014.

Pietro Bianchi, Internazionale

 

Immerso in una tenebra altrettanto fitta, il film di Costa fa dell’illuminazione (come del resto di ogni aspetto ‘tecnico’) una questione morale oltre che estetica, qui rinnovata ad ogni passo del montaggio, nella tensione tra la meticolosa composizione del quadro e un nero che erode ogni cornice, annegando le linee nella propria massa densa. Il presunto formalismo di Costa non è mai arbitraria marca stilistica, ma un marchio di grazia o dannazione: il rigore geometrico che articola i quadri di Cavalo Dinheiro diventa indice della ripetitività infernale della storia, in un film di identità ritornanti e da sempre disperse, umiliate e negate dall’architettura sociale e materiale che le racchiude e le amministra. E se qui la penombra che aleggiava Nella stanza di Vanda (1998) invade il quadro, quello che non si trova è la stessa idea di una stanza, di un’abitazione: non ci sono più le baracche di Fontainhas, già in demolizione al tempo di quel film, ma nemmeno i nuovi asettici quartieri, dove gli abitanti di Fontinhas furono trasferiti e dove Ventura si aggirava disperso in Juventude em Marcha. Ci si ritrova invece in un altrove catacombale, al tempo stesso caverna preistorica e spazio istituzionale polimorfo, che assume facce diverse (ospedale, prigione, caserma, fabbrica) e si estende ovunque, per rinchiudere e inchiodare a un identico presente. Solo a un certo punto, verso la metà del film, Costa concede una sortita e la tensione si scioglie in una sequenza di ritratti che sembrano arrivare dai loculi ormai distrutti di Fontainhas, dove le figure ritrovano la stessa fissità e la spoglia durezza delle fotografie di Riis, qui ammantata della malinconia di una canzone di Capo Verde, un testo che parla di immigrati che svendono la propria terra per una paga da fame nei cantieri e nelle fabbriche di Lisbona. Per il resto si continua a peregrinare attraverso vani che echeggiano di passi pesanti puntellati da stampelle, cigolii e clangori, respiri e rantoli. Ambulatori, corridoi, refettori: spazi metonimici, contigui, eppure mai comunicanti, come le inquadrature che li fissano in angolazioni di opprimente coerenza, ma che emergono dalla profonda convinzione che ogni giunta di montaggio sia un atto di rottura, che sia paradossale congiungere un’inquadratura con un’altra, il passato con il presente. Blocchi non riconciliati, non componibili, come del resto i due sostantivi che formano il titolo del film, fra cui si possono intravedere relazioni possibili e significanti, ma che restano una specie di concreto ossimoro, impossibile da inquadrare come una totalità.

Tommaso Isabella, Filmidee