Approfittiamo della rassegna Cinema ’63 – ideata in omaggio all’incredibile annata cinematografica in cui uscì anche Il disprezzo – per alcuni approfondimenti su film e identità italiana di quegli anni. 

Nel maggio del 1963, la giuria del Festival di Cannes assegnò l’alloro massimo a Il Gattopardo di Luchino Visconti, preferendolo a, tra gli altri, Il signore delle mosche, Una storia moderna: l’ape regina, Io sono un campione, Che fine ha fatto Baby Jane, Il buio oltre la siepe. A settembre, il pubblico inferocito della Mostra di Venezia fischiò Le mani sulla città di Francesco Rosi, Leone d’Oro in un’annata incredibile (Fuoco fatuo, Anatomia di un rapimento, Muriel, il tempo di un ritorno, Il servo, Billy il bugiardo, Tom Jones…).

È curioso come, in un momento abbastanza irripetibile per il cinema italiano, i due principali festival di quell’anno scelgano di premiare film che dimostrano una certa autonomia critica rispetto allo storytelling dell’ottimismo dominante nell’Italia apparentemente riconciliata ed eccitata di quel periodo. È la stagione del cosiddetto boom economico, quando il progresso industriale contribuì ad incrementare i consumi, creando nuovi modelli di vita e facendo mutare l’identità delle classi sociali.

Il cinema italiano, al massimo del suo splendore, ne seppe raccontare con puntualità e maturità la magmatica complessità, proponendo una ricca produzione in risposta alla crescente domanda di qualità da parte dello spettatore. Solo nel ’63, vanno segnalati un poetico documentario politico (La rabbia di Pasolini), una sontuosa commedia popolare (Ieri, oggi, domani), una carrellata sul peggio dell’italiano medio (I mostri), un’allucinazione grottesca sul consumismo (Il boom) ma anche un’altra resa dei conti col passato (Il processo di Verona).

Ed è pure l’anno del capitale 8 ½, l’apice di Federico Fellini, nonché culmine di un’epoca in cui il sistema sostiene il lavoro di un autore di rilievo internazionale. Perciò la stagione del boom è anche la stagione degli autori. E così i citati Visconti e Rosi possono operare con i budget utili per un grande spettacolo senza compromettere la riconosciuta e riconoscibile cifra autoriale.

Non è un caso che Il Gattopardo, travagliato apogeo della Titanus di Goffredo Lombardo, esca due anni dopo le fastose celebrazioni per il centenario dell’Unità d’Italia, suggellate da Viva l’Italia! di Roberto Rossellini. All’umanismo didattico del “film ufficiale”, Visconti replica rievocando la fine di un mondo perduto (la sua classe sociale), occupato dagli invasori, minacciato dalla borghesia, tradito dalle nuove generazioni. Il pessimismo del Principe di Salina sui contraccolpi etici del Risorgimento è lo sguardo disilluso del conte Visconti su una contemporaneità che ha ereditato il peggio del passato (qualunquismo, opportunismo, connivenze sospette).

Nel frangente in cui l’Italia del ‘63 si afferma tra le maggiori potenze mondiali, anche Le mani sulla città svolge un’altra riflessione sull’atavico problema meridionale. Servendosi della stessa sintesi tra stile documentaristico e componente spettacolare (il protagonista è Rod Steiger) di Salvatore Giuliano, attacca i responsabili politici, economici e morali del sacco edilizio napoletano, fino ad assumere uno dei simboli positivi del boom (il palazzo: si pensi all’esplosione pianificata da Ugo Tognazzi ne La vita agra) come referente negativo di un’inchiesta sugli effetti sociali della malapolitica.

In una sapiente via di mezzo tra i due, il meno celebrato I compagni di Mario Monicelli raggiunge un esemplare equilibrio tra metafora storica, ambizioni etico-ideologiche ed esigenze commerciali. Come Visconti, parla del passato per dire qualcosa sul presente (ma senza la nostalgia); come Rosi, si schiera dalla parte dei più deboli per accusare la classe dirigente (ma con più ironia). Rispetto ad entrambi, convinti delle loro illusioni perdute, rivendica la necessità di un barlume di speranza.

Autori umoristici quanto engagé, il regista, Age e Furio Scarpelli colgono la contraddizione di fondo del periodo: i primi tentativi di centrosinistra, col progressivo ingresso dei socialisti nella compagine governativa, rappresentano il compimento simbolico della tensione progressista o un compromesso al ribasso per la lotta operaia? Per ragionare sul presente (nel ’60, i sanguinari scontri di Genova; nel ’62, Piazza Statuto a Torino occupata dai metalmeccanici in scadenza di contratto), I compagni racconta uno sciopero in una fabbrica tessile di fine Ottocento, dove gli operai sono costretti a lavorare più di dodici ore.

I capitali della Vides di Franco Cristaldi assicurano una magnifica confezione con buona parte del cast tecnico del Gattopardo (Giuseppe Rotunno, Mario Garbuglia, Piero Tosi) e la poetica di Monicelli si esalta con un gruppo di perdenti tipico del suo cinema. Da una parte ne osserva dinamiche di solidarietà, emozioni primarie, conflitti interiori, scetticismo popolare; dall’altra non abbandona mai il discorso metaforico e dimostra quanto la commedia possa manifestare il suo impegno. Per continuare a scrivere soprattutto a favore e per conto di chi non sa leggere.

Adele: Scrivimi!

Raoul: Ma se non sai leggere!

Adele: Scrivimi lo stesso!

 

Lorenzo Ciofani