Sta incantando i cinefili che aspettavano da tempo il nuovo film di Pietro Marcello, lo struggente Bella e perduta (in sala in questi giorni al cinema Lumière). Opera tutt’altro che mainstream, e tuttavia anche semplice nella sua poesia, dove i pur raffinati riferimenti culturali vengono in ogni caso calati sul territorio campano – e su quello del teatro, del documentario, della fiaba italiani. Viste le possibilità interpretative del film, Cinefilia Ritrovata ha fatto una piccola ricognizione critica, da cui traiamo questa breve antologia.Sul nuovo numero di Filmidee, Giona Nazzaro scrive: “L’allegoria, figura retorica rischiosa al cinema, trova in Marcello un candore lirico sorprendente le cui radici affondano, probabilmente, nello scandalo per l’affronto subito dalla sua terra. Il viaggio iniziatico, un esorcismo teso a riconciliarsi con il bufalo, simbolo forte di Terra di lavoro, messo a rischio dai rifiuti tossici nascosti dalla criminalità organizzata nelle campagne, inquinando così le falde acquifere, ha una valenza quasi pagana, senz’altro ancestrale. E per quanto possa risultare seducente evocare il Pasolini di Uccellacci e uccellini, pur presente per certi versi nel cordoglio per una terra offesa, è opportuno osservare che Marcello non parla da una posizione di un’ideologia, per quanto sofferta e sottoposta ad analisi critiche. Il suo sguardo, lirico e antropologico insieme, tenta di essere fattuale; di rendere conto del dato materico, di registrare ciò che ancora vive intorno a lui. In questo senso c’è nel suo film anche uno scarto decisamente inattuale. Pur essendo profondamente ancorato alla propria terra, la filma come da una distanza; una distanza nella quale è evidente l’amore per i maestri sovietici. Pur nel rispetto del rispetto ontologico fra cosa vista e dispositivo di riproduzione, Marcello sa che l’immagine filmata è sempre altra rispetto al dato di partenza. La sua passione nel tentare di dare vita a un’immagine che sia il segno della differenza rispetto al reale, è anche il segno del progetto del regista: restituire come immagine, quindi come possibilità, ciò che altri hanno preso alla terra (e al reale). Discontinuare, quindi, la soggezione di fronte alla realtà per ritrovare il reale come lavoro, presenza e possibilità di un’altra immagine, ossia possibilità di un altro dire e, inevitabilmente, un altro vedere”.

Nello stesso speciale sul film, Daniela Persico e Alessandro Stellino propongono una intervista al regista, che ci pare da citare quando afferma: “Il bufalotto è un’animale che scappa da una morte prematura, anche il bufalo è un eroe! All’inizio pensavo di concentrare il film sulla figura di Tommaso, che ha salvato questo bufalotto dalla morte. Poi le circostanze mi hanno fatto cambiare direzione: la notte di Natale Tommaso è venuto a mancare, allora Sarchiapone ha preso il suo posto. L’animale è una vittima del nostro sistema: un tempo i bufali trainavano i trattori ed erano amici dell’uomo, oggi sopravvivono solo le femmine per produrre latte. Così Sarchiapone è il simbolo di un’alleanza perduta con il declino del mondo contadino e la sua voce può essere sentita da Pulcinella, una maschera che collega il mondo dei vivi e quello dei morti, anche se solo per il tempo di una fiaba”.

Roy Menarini, su MyMovies, raccoglie le tracce letterarie e tradizionali del film: “Il bufalo che attraversa il nostro paese si chiama Sarchiapone, probabilmente pensando a Sarchiapone e Ludovico, la magnifica poesia di Totò, composta negli anni Sessanta, scritto malinconico, pessimista e al contempo profondamente napoletano nel suo vitalismo fiabesco. Lo accompagna Pulcinella, che continua tuttora ad essere considerata una maschera centrale della cultura popolare italiana, non solo per il suo passato ma anche per la sua persistenza nel folklore contemporaneo. Ne parla, non a caso, un recentissimo volume del filosofo Giorgio Agamben. Infine, c’è una voce narrante, che rappresenta il bufalotto che commenta amaramente quel che scorge, tra Terra dei fuochi e dispiaceri umani: le parole sono recitate da Elio Germano, scelto con tutta evidenza per aver dato corpo e volto al Leopardi di Mario Martone. Sarchiapone ha uno sguardo leopardiano sul mondo, e il cerchio si chiude se pensiamo alla fascinazione che ebbe per Pulcinella il curioso Giacomo in viaggio a Napoli, e soprattutto alla riscoperta dei Dialoghi composti dal padre, Monaldo Leopardi, uno dei quali dedicato proprio alla maschera napoletana. Pietro Marcello, insomma, omaggia e piange la sua terra, il cinema che fu (la pellicola offre qua e là la sensazione di stare guardando un documentario di Raffaele Andreassi), e tutte le sperimentazioni possibili sulle immagini e la loro memoria – come dimostrano gli inserti found footage e le mescolanze tra documentario, finzione, performance, le conversazioni tra musica (Donizetti, Respighi, Scarlatti, ma anche Nino D’Angelo) e visione”.

Roberto Manassero, firma dell’autorevole Doppiozero, aggiunge: “Bella e perduta è un film su una figura splendida e triste, un pastore votato alla bellezza e morto sopraffatto dallo sconforto: per questo è l’elegia struggente di un piccolo eroe che si fatica a considerare perduto. A partire dalla battaglia di Tommaso, è anche una riflessione sull’abbandono di un’idea di Italia, di società civile e di cura collettiva, filtrata dalla presenza in scena di Pulcinella, servo trasformatosi in padrone compassionevole, e i pensieri di un animale (il bufalotto Sarchiapone) condannato anch’esso alla morte: una voce bianca, non scalfita dal tumulto della ragione, alla quale è concesso il privilegio dello stupore. A raccontarla così fa onestamente un po’ paura: il rischio del ridicolo involontario, dell’agiografia, o semplicemente dell’accumulo di elementi della tradizione popolare, è in agguato. Ma se in qualche tutto si tiene, nonostante la dispersione del racconto, la poeticità fragile del testimone passivo, la presenza ingombrante di Pulcinella e il tono salmodiante delle voce over, è proprio grazie alla capacità di Marcello di mantenere viva la tensione fra immobilità e movimento, tra la fissità astratta della Reggia e il tempo cangiante e imprevedibile del reale. Il compianto per la bellezza lontana è stravolto dai cambiamenti imposti dal degrado; ma al tempo stesso il film trae la sua forza – la sua modernità e la sua importanza – dall’umiltà di ammettere l’impotenza della struttura, dall’onestà di accogliere il cambio di prospettiva, direzione e racconto”.

E ancora lo scrittore Nicola Lagioia su Internazionale: “Nel film c’è l’Italia come luogo anche metafisico, c’è la volontà (e soprattutto la capacità) di sondare l’invisibile del nostro paese (ciò che la cronaca e i reportage non possono per loro natura raccontare, eppure esiste, ci appartiene), un compito a cui non pochi registi italiani si stanno eroicamente dedicando in questi anni, dalla Alice Rohrwacher di Le meraviglie, al Leonardo Di Costanzo di L’intervallo, al Michelangelo Frammartino di Le quattro volte, al Roberto Minervini della trilogia texana, a colui che (seppur con cifre e codici molto diversi) si può considerare il padre vivo di tutti loro: Franco Maresco. Bella e perduta restituisce (le cose perdute nel mondo reale le ritroviamo trasfigurate tra i panorami di uno spirito che esiste) ciò che in fondo ancora ci appartiene, ma difficilmente viene mostrato in un film. A proposito dei nostri guasti insinua il dubbio che (per dirla con Thomas Bernhard) ‘ogni malattia può essere definita malattia dell’anima’. Soprattutto, a saperci davvero scavare, nella wasteland della Terra dei fuochi di cui tutti siamo cittadini e viandanti c’è dolore ma anche paradossalmente molta più speranza e pietà di quanto il nichilismo della cronaca (e di tanta politica) vorrebbe farci credere. Finalmente qualcuno torna a capire che, per un artista, arrivare a sapere senza prove è più importante che brandirle in nome della verità. In un caso si guarda. Nel primo – a rischio di smarrirsi molte volte – può capitare addirittura che si veda”. 

Belle, per concludere, anche le parole di Julien Gester su Libération: “Incandescent de beauté solennelle comme irradiée par le soleil du sud de l’Italie, le film serpente telle une coulée d’images somptueuses, qui sont autant de sédiments de matières élémentaires agrégés par un courant pasolinien entre les rives du réel abîmé et du mythe, de la vie et la mort, de l’allégorie très politique des destinées migratoires et l’extension poétique de la communauté du sensible à tout ce en quoi palpite quelque vie”.