In occasione della mostra Pupi Avati. Parenti, amici e altri estranei, aperta ancora fino al 14 agosto, riceviamo e volentieri pubblichiamo una lunga intervista inedita realizzata da Elisa Belotti. L’intervista è stata registrata a Roma il 6 maggio 2013, in casa del regista Pupi Avati. La versione originale è contenuta in Elisa Belotti, L’accoglienza critica italiana a Il papà di Giovanna (2008) di Pupi Avati, Università degli Studi di Milano, tesi di laurea triennale, relatrice prof.ssa Elena Dagrada, a.a. 2012-13.

Vorrei iniziare la nostra conversazione partendo dal volumetto uscito nella collana “Il Castoro”, che Antonello Sarno le ha dedicato nel 1992. Sarno aveva individuato tre diversi atteggiamenti della critica nei suoi confronti: i cattolici erano tendenzialmente favorevoli (Rondi, Bolzoni); i laici di varia appartenenza erano tentennanti ma globalmente ben disposti (Grazzini, Bianchi) e infine i critici di sinistra, i quali nutrivano un atteggiamento di sufficienza quando non anche di disappunto (Cosulich, Kezich, Morandini). Ovviamente ricordiamoci che il libro citato risale a vent’anni fa, e che, di conseguenza, il parere della critica è mutato con gli anni (basti pensare a Kezich che prima avanza pareri negativi e successivamente si ricrede, fino a diventare un suo sodale). Considera questa suddivisione attendibile?

Sì, sì credo di sì. Anche se un po’ manichea. Col tempo si sono mescolate le carte. Più che altro, per alcuni critici mi sembra una definizione riduttiva: dire che Kezich era un critico di sinistra, ad esempio, è fortemente riduttivo. A un certo punto c’era una compagnia di giro alla quale io facevo vedere i film in anticipo ed era costituita da Kezich, da Cosulich, dalla Tornabuoni, da Stefano Reggiani, da Miccichè, da Grazzini e da Rondi, quindi tranne Rondi – che era l’unico cattolico – tutti gli altri erano orientati a sinistra eppure venivano a vedere i miei film e da un certo punto in avanti iniziano a parlarne tutti bene.

A partire da Una gita scolastica e Noi tre, mi sembra…

 Da Noi tre; Una gita scolastica non fu molto apprezzato: Kezich ne parlò molto male.

A causa del buonismo…

Poi siamo diventati amici e ne abbiamo riso molto; lui voleva rivederlo. Kezich era una persona sufficientemente intelligente – e lo sono anch’io – per capire che, in effetti, ci avevo un po’ speculato. Molte volte c’è un desiderio di essere eccessivamente consolatori, di essere molto rassicuranti. Soprattutto negli aspetti autobiografici che mi riguardavano, mi piaceva molto rifarmi una biografia migliore di come non fosse stata veramente la mia vicenda umana. Non c’era, però, quell’acredine, quella durezza, quel sentirsi in servizio permanente nella garitta col moschetto in difesa di qualcosa, che è subentrata poi da parte di una critica generazionalmente più giovane e, soprattutto, in quelle migliaia di persone che scrivono sui siti di critica. Mi capita di leggere certe cose, riguardo ai miei colleghi, di un’aggressività che è ingiustificabile se non attraverso un problema personale. Questi sono i cinefili. Secondo me la rovina del cinema è il cinefilo, io lo sostengo da molto tempo. Il cinefilo è una persona disturbata, che non ha parametri, che non sa comparare la realtà, che non è capace uscire dalla sala cinematografica e non sa fare cinema perché se c’è una cosa che ti priva della tua identità è aver visto troppi film. C’è un’età in cui devi esser andato al cinema, se vuoi fare il cinema, come c’è un’età in cui devi aver letto il più possibile se vuoi fare il romanziere. C’è un’età in cui io ho visto centinaia e centinaia di film, però a un certo punto ho detto: «Adesso li faccio io i film e quelli degli altri non li guardo più». Invece ci sono quelli che continuano a guardare quelli degli altri e questo si sente moltissimo; non sono ancora riusciti ad avere una propria identità. Poi ci sono quelli che vanno al cinema per mestiere e quelle sono le persone secondo me meno affidabili, alle quali è difficile chiedere cos’è la verità della vita, delle cose. Io ricevo, alcune volte, delle considerazioni da parte di intellettuali liberi – perché ci sono intellettuali che non sono collocabili, grazie al cielo – che si domandano e mi dicono: «Come mai tu non sei apprezzato come dovresti essere?».

A un certo punto ho pensato che fosse diventato per me molto comodo, una sorta di alibi, attribuire questa cosa alla non appartenenza a un certo tipo di contesto, di schieramento, che potrebbe avermi supportato, ma non è così. La non appartenenza io l’ho cercata non in polemica ideologica; io l’ho cercata perché, per preservare la mia identità, ho bisogno di essere ai margini. Mi è necessario, è il mio humus, l’aria che respiro deve essere solo ed esclusivamente mia. Io non la posso condividere. Io non potrei andare stasera alla manifestazione x, y, z. Non perché è di destra, di sinistra o di centro, ma perché io proprio con quelli che protestano gesticolando e alzando le mani non ci sono mai stato e mi vergogno. Mi sentirei umiliato, appiattito. Io voglio essere io, punto. Nel bene o nel male. Ecco, questo fatto di non appartenere crea una sorta di diffidenza alla quale si va ad aggiungere la prolificità. Tutti aspetti a causa dei quali c’è una sottovalutazione. La prolificità, il sapere inventarsi tante storie, molto spesso anche carine, è ritenuto grave perché non produci il capolavoro, che invece deve essere oggetto di una grande rincorsa, di anni e anni di tormenti per poi scrivere magari quella cosa che non sempre è un capolavoro, però ha richiesto il giusto tempo. Un altro aspetto che sicuramente non aiuta è il fatto che io mi chiami Pupi.

 Anche Kezich disse che tra le ragioni che inizialmente lo portarono a sottovalutare il fenomeno Avati ci fu il fatto che lei si chiamasse Pupi…

 Lo sanno tutti. A me non daranno mai una laurea ad honorem. Come fanno a dare una laurea ad honorem a uno che si chiama Pupi?

In realtà sempre Kezich si è ricreduto e ha scritto che un premio dato a un qualsiasi Giuseppe Avati non sarebbe come un premio dato a Pupi.

 Lo so, però questo lo diceva Kezich che era una persona di straordinaria acutezza, ma le persone non sono tutte Kezich. Pupi è stato un handicap. Un altro handicap è stato che fossi andato in televisione per anni e anni a suonare il clarinetto, con la paglietta. Sono cose che magari a Woody Allen in America vengono perdonate, ma a me in Italia no. Io ho commesso tutta una serie di infrazioni che sicuramente hanno tolto molti punti alla mia patente. Tra tutte, la più grave è appunto la prolificità.

E l’essere dichiaratamente cattolico e praticante?

Anche questo, è evidente. Soprattutto il fatto di essere democristiano. Io ho dichiarato di essere democristiano. Erano tutte dichiarazioni non convinte, eccetto quella del cattolico, del credente. Finalizzate a provocare l’emarginazione, al voler essere cacciato via, messo dietro alla lavagna. Perché ho avvertito che solo così io avrei rafforzato la mia identità: producendo in me un grande risentimento nei riguardi degli altri. Un senso d’isolamento. Naturalmente sono condizioni che producono infelicità, ma è proprio l’infelicità, non la felicità, che ti permette di crescere. Lei mi ha chiesto: «Ma come ha reagito alle recensioni de Il papà di Giovanna?». Ero talmente contento che non le ho neanche lette. Ecco, questo ti fa capire quanto si è rimbambiti quando si è contenti. Quando si vince, non si vince nulla, si perde. È quando si perde che si vince. È strano, ma la vita è questa. La mia mamma diceva: «Quando si chiude una porta, si apre un portone». È vero. Si cresce molto di più nelle sconfitte che nelle vittorie. Poi, un altro aspetto per il quale addirittura sono stato deriso, è che rispondo a tutti. Scrivo a tutti e incontro tutti. Un mio illustre collega – una specie di icona del mondo cinematografico – mi odiava a tal punto da rilasciare delle dichiarazioni nelle quali affermava che io ero una specie di grande ruffiano perché rispondevo a tutti mentre non bisognerebbe farlo. Insomma, ci sono dei comportamenti che io ho messo in campo e che hanno a che fare con la quotidianità, con la correttezza, con la buona educazione, con la civiltà dei rapporti. Se un critico scrive una bella recensione di un mio film io gli scrivo una lettera e lo ringrazio. Se un altro scrive di me una cattiva recensione io non gli telefono, non faccio niente, ma non è che mi lamento, la subisco e basta. Il fatto che io ringrazi per una buona recensione è visto come una cosa brutta: il regista dovrebbe essere più austero. Io ho poco da spartire con questa idea di regista. Adesso hanno fatto un’associazione che si chiama “Cento autori”; io credo di essere il regista italiano vivente che ha fatto più film, ma non mi hanno neanche chiesto di entrare, di farne parte. Io credo che molte persone non mi considerino un regista cinematografico, mi considerano un’anomalia, ma questa è la definizione che preferisco: io voglio essere un’anomalia.

Appunto, si parla spesso di critica epistolare riguardo al suo modo di interloquire con i critici, attraverso una corrispondenza scritta. Ha potuto trarre benefici da questo tipo di confronto?

Benefici nel senso che hanno parlato meglio di me?

No, no, benefici nel senso costruttivo del termine.

Beh, con alcuni critici c’è una corrispondenza che credo li abbia anche lusingati. Trattandosi solo dei casi in cui io avevo trovato nella recensione degli elementi che mi avevano aiutato a capire meglio, ad arricchire la visione di quello che avevo fatto, a rendermene conto un po’ meglio, certo, il momento successivo, il film successivo si è avvantaggiato di questa apertura. Non sempre è così, perché certe volte succede che magari queste lettere vengono male interpretate. Io dichiaro in questo momento ufficialmente che la critica bella o brutta oggi non serve a nulla! Chiunque riceva una mia lettera, la riceve perché io voglio ringraziare e basta, dunque non ci sono secondi fini. Talvolta una bella critica può essere addirittura nociva, perché la gente può giustamente preoccuparsi: «Ah, se ne parla bene quello allora non lo vado a vedere!». Tanto è vero che lo spazio critico è sempre più ridotto. Gli spazi sono dedicati soprattutto alla cronaca, al costume, alle interviste. La critica si è delegittimata da sola. Non avendo capito cosa è il cinema, sostenendo che il cinema è una cosa per élite ristrette, ha favorito un disamore che è nato tra la gente, tra il paese reale e il cinema. Guardi cosa ama il paese reale, guardi la televisione, guardi le fiction che ama il paese reale, quelle di maggior successo: sono le più brutte. Noi abbiamo ottenuto questo risultato: c’è uno scollamento totale fra la qualità e il risultato. È molto difficile trovare oggi qualche cosa di apprezzabile che venga proposta in ambito cine-televisivo e che riscuota successo, mentre in altri ambiti non è così. Come mai per il cinema e la televisione è così?

In un articolo di Roberto Silvestri su il manifesto, ma anche in un articolo di Andrea Bellavita uscito sulla rivista Segnocinema, si dice cheil suo film, Il papà di Giovanna,sia vicino alla fiction e stancamente televisivo[1], ma lei aveva dichiarato il contrario in un’intervista rilasciata a Maurizio Porro per il Corriere della Sera[2]. Come giustificare questa visione?

Silvestri! Ha sempre scritto male, da quando è nato! Sempre! Io penso che lui non li veda i miei film. Mi faccio una domanda: come può una persona non amare un regista e vedere quarantacinque suoi film? Un regista che non ti piace, dopo che hai visto uno o due suoi film, non lo vai più a vedere, non ne scrivi più, è una cosa che non ti interessa. Queste persone sono un corredo, una protesi che mi porto appresso. In realtà, saranno trent’anni che non leggo le critiche di Silvestri che mi riguardano, tanto le do per scontate. Le sue sono nella mazzetta delle recensioni che nemmeno in ufficio vengono lette. Potrebbe davvero risparmiarsi la fatica di scriverle. Il problema è che lo pagano per farle. Io mi auguro che le scriva senza neanche vedere i miei film, perché tanto lui non si deve preoccupare, può essere anche inattendibile, va benissimo.

Riprendiamo il discorso a proposito della fiction…

Io spero che si facciano delle fiction come Il papà di Giovanna

Quindi sarebbe auspicabile che quelle affermazioni fossero vere attraverso un riscontro nella fiction…

Sicuramente. La qualità de Il papà di Giovanna è altissima e parlo di qualità di scrittura – perché il cinema è scrittura – di messinscena, d’interpretazione. Io credo che noi che vogliamo bene al nostro paese dovremmo addirittura augurarci, come dice lei, che si faccia una televisione intelligente. La televisione seriale americana è così: è al livello de Il papà di Giovanna. Le serie statunitensi sono girate con una tecnica simile, con quel tipo di approccio, con la medesima ricostruzione d’ambiente, con la stessa maniera di fare fotografia. Toglierei “stancamente” e direi: «Magari ci fosse un approccio così alla televisione». Io ho fatto adesso una televisione così. Ho fatto una serie che va in onda in ottobre ed è così.

Un matrimonio…[3]

Sì. Che è così.

Viene anche spesso riconosciuto, sia positivamentesia negativamente, un intento didattico e didascalico (il quale risulta anche da alcune sue dichiarazioni)[4]. C’è una volontà pedagogica nel suo film?

Io credo che ci sia sempre da parte di una persona adulta, soprattutto quando diventa più che adulta, la voglia di testimoniare la propria vicenda umana e raccontare come vanno le cose nella vita agli altri, affinché non commettano magari gli stessi errori che abbiamo commesso noi. Sarebbe grave se non fosse così. Il mio cinema è un cinema che tende a testimoniare, anno dopo anno, qual è la mia visione delle cose del mondo. Un intento didattico c’è in questo senso: cerco di dire, doverosamente, ciò che dalla vita ho appreso. Io avverto il cinema come uno strumento per comunicare quello che si sa della vita. Io di solito non rivedo i miei film,ma se mi capita di essere costretto – qualche volta è inevitabile – provo un grande imbarazzo, perché vedo un mio io dal quale ho preso le distanze, dal quale mi sono allontanato. Non so se migliorando o peggiorando, ma comunque diventando un’altra persona. A tutti noi tocca compiere questo percorso e quindi i miei film sono la mia visione delle cose in quell’anno. Non so, Il papà di Giovanna è del 2008 e corrisponde a come ero io nel 2008, a come vedevo le cose nel 2008. Probabilmente, se lo rifacessi oggi, lo rifarei con la stessa sceneggiatura, ma porrei l’accento su altri aspetti, non esattamente quelli.

Una delle polemiche più diffuse riguarda il revisionismo storico. All’epoca di Aiutami a sognare (siamo nel 1981) si lamentava dell’assenza di scandalo al cospetto della sua provocazione: aveva descritto, con quel film, l’isoletta felice borghese che nel ’43, nei pressi di Marzabotto, si era preoccupata più di cucinare dolci e cantare che della violenza che imperversava lì accanto o della temperie politica. L’ambientazione di questo film ha ancora a che vedere con una provocazione? Come mai, a distanza di vent’anni, viene colto quello che prima non aveva suscitato alcun interesse provocando addirittura un’accusa simile?

Innanzitutto, perché ci sono due aspetti molto diversi. Aiutami a sognare è un film visto dal punto di vista dei bambini, dal bambino che ero io, da ciò che avevo vissuto. L’ho dichiarato più volte: avevo vissuto il periodo dello sfollamento a Sasso Marconi come l’unico periodo in cui ho visto la mia famiglia unita. In quel momento, in casa, ci sono stati un papà e una mamma, anche se nel film il papà non c’è perché la madre è vedova; insomma, ho mostrato la situazione di questi borghesi che avevano vissuto il privilegio di potersi in qualche modo porre al riparo da quelli che erano i grandi pericoli della guerra e vivere questi anni, sì nelle preoccupazioni, ma soprattutto nell’attesa di questo grande sogno americano; infatti, il film è addirittura un musical. Io pensavo che ci sarebbe stata una specie di rivolta, invece nel 1980 la critica non era ancora così attenta, così agguerrita e si limitò a stroncare il film, a non considerarlo. Io stesso ero guardato con meno attenzione di quanto non sarebbe avvenuto in seguito. Ne Il papà di Giovanna, invece, succede che Ezio Greggio viene fucilato dai partigiani.

E questo è un problema…

Questo non è un problema perché è accaduto. Perché i partigiani, che hanno fatto delle cose egregie, hanno anche compiuto delle azioni terribili. Io avrei potuto benissimo raccontare di come i partigiani avevano cotto il fornaio di Minerbio dentro il suo forno. Cotto! Le vendette, le ritorsioni lecite e meno lecite, in quel periodo furono così frequenti che non c’è la possibilità di chiamare “revisionismo” un episodio che aveva a che fare con una vicenda purtroppo legata alla piccola vigliaccheria di uno di questi uomini. Non erano tutti eroi. C’erano personaggi che avevano scelto per paura. Io ho avuto degli amici fascisti che sono attori nei miei film, uno stava con Walter Chiari nella Repubblica di Salò ma mica solo loro. Ci fu Dario Fo. Ci sono tanti intellettuali che hanno abbracciato questa scelta in quel momento specifico. Io non sono certamente uno che li condanna o punta il dito. Capisco come in quel momento di scelta forse abbiano sbagliato, però alcuni non sono stati perdonati ed Ezio Greggio nel film incappa in un gruppo di partigiani che lo fanno prigioniero e lo giustiziano. Succedeva regolarmente. Ed è morto sul tram. Non è una cosa che ho inventato. Si tratta di un dettaglio, di un fatto che non cambia niente, poteva benissimo non esserci. Non ha inciso né sul successo né sull’insuccesso del film, non ha cambiato granché. Chi si è soffermato su questo aspetto, nel vedere un film così specifico, dalla tematica psicologica così forte nel raccontare il rapporto tra un padre e una ragazzina, dove la felicità e l’infelicità hanno delle temperature così elevate, chi si sofferma su come muore Greggio, fucilato su una sedia, è veramente qualcuno secondo cui il proprio compito è rompere le scatole. Mi ricordo che ci fu un articoletto su l’Unità.

Beh, una lancia a suo favore la spezza Filippo Rossi che, su Il Secolo d’Italia, sostiene che il suo sia un “revisionismo psicologico” più che storico.Il suo revisionismo diventerebbe addirittura auspicabile: non si tratterebbe più dell’eccezionalità della storia, bensì della normalità della quotidianità[5].

Era così! Vedere il fascismo come compatibile, sul pianerottolo. Com’erano i fascisti che abitavano sul pianerottolo di fronte a casa tua? Di via san Vitale? Erano così. Non erano mica delle persone che venivano ad arrestarti nel cuore della notte e a darti l’olio di ricino. Se lei pensa che io ho dichiarato più e più volte che ho vissuto quegli anni in una famiglia senza un’idea della scelta politica abbracciata da essa. Io non so se mio padre fosse fascista o antifascista. Mio padre sicuramente non era iscritto al fascio, ma non era neanche un antifascista.Io non posso vantarmi come fanno tanti. Certo, c’erano dei problemi. Indubbiamente ci sono stati dei problemi: so cosa è la libertà, so cosa vuol dire soprattutto per gli intellettuali. Mio nonno era un socialista, è sempre stato un socialista, però faceva il cantiniere in casa del podestà: era la contraddizione più totale. Questa descrizione, questa ricostruzione di un mondo come se ci fossero da una parte i bianchi e dall’altra i neri, è più facile da comprendere, ma non è veritiera. Bisogna cercare invece di privilegiare quelli che sono gli aspetti umani dell’individuo, la cui felicità o infelicità non transita sempre attraverso la scelta ideologica, del partito, del fazzoletto al collo. La felicità dell’individuo non sta nell’appartenenza a un sindacato che ti fa più felice di un altro sindacato. La tua felicità non è lo spread. Purtroppo non ha niente a che fare con lo spread. Tutti quelli che si rallegrano: «Abbiamo abbassato lo spread!… Oggi mia moglie mi vuol più bene, mio figlio non soffre più perché si è abbassato lo spread!». Non è così, la felicità individuale purtroppo dipende da tante altre cose. Il mio cinema si occupa di questo. Le persone che si soffermano su questi aspetti, sono, a mio avviso, espressione di un limite: di quelle griglie attraverso le quali far coincidere tutta una serie di parametri per dare un voto finale. Non è così: l’essere umano sfugge. Giovanna e suo padre, nel loro rapporto, e anche la madre sfuggono. La madre è un personaggio che ha delle peculiarità che trovano riscontro nella sua storia d’amore, nel disamore per la figlia, nella mancata capacità di capire quest’ultima, sentendosi vittima. Lei è emarginata da questa coppia, dalla simbiosi che c’è tra il padre e la figlia ed è colpevolizzata per la sua avvenenza. Ci sono così tante cose più importanti del revisionismo. La scelta dell’ambientazione voleva solo contestualizzare la storia in un tempo: in una stagione in cui accadevano queste cose.

A questo proposito, per Il papà di Giovanna lei ha dichiarato di essersi ispirato ai fatti odierni di cronaca nera (Novi Ligure, Garlasco…). Sicuramente gli anni dell’ambientazione, che spaziano dal 1938 al 1953, hanno un legame più archetipico con la sua persona, ma è chiaro che l’atteggiamento nei confronti di quelle vite, anche grazie all’avvento dei mass media, è profondamente mutato. Come sottolineava Kezich sul Corriere della Sera, si è passati dal «divieto di abuso e uso sotto la dittatura fascista», agli «intervistati squillo»[6]. All’epoca sarebbe stato impensabile concepire le gite in pulmino per farsi fotografare davanti alla casa di Sara Scazzi. L’ambientazione da lei scelta, seppure più vicina alla sua persona, può raccontare un modo di sentire e reagire al dramma, anche se così diverso dal modo contemporaneo di recepire queste tragedie?

No! Perché nel sentire contemporaneo di eventi di questa natura, il cinema non ha più quella sorta di corsia preferenziale che poteva percorrere – che può percorrere – quando andiamo indietro nel tempo, quando non siamo bypassati dai media. Che senso avrebbe oggi fare un film sul delitto di Garlasco o di Avetrana? Che cosa potrebbe aggiungere? Sarebbe una fiction!

Una pornografia della morte…

In termini di verità, di verosimiglianza, quanto aggiungerebbe? Nulla! Sarebbe un enorme fallimento cinematografico. Invece io ho voluto usare un evento così doloroso, traumatico, per raccontare un contesto psicologico, culturale, storico, ambientale, politico. Io credo che in quella zona plumbea –che riguarda tutto e tutti – la televisione non arrivi. La televisione della verità, dell’indagine, dell’inchiesta, dei talk show, delle trasmissioni di approfondimento non arriva a tale profondità psicologica. Con il cinema riesci a riprodurre, a simulare, come un evento di questo genere era vissuto in quell’epoca. Spesso si riesce a farlo in modo molto convincente (credo che Il papà di Giovanna sia convincente) producendo un’identificazione tra spettatore e personaggi, ricostruendo quelle che erano le condizioni di allora. Questo avviene fornendo molte informazioni perché uno spettatore, specialmente se è giovane, non sa quasi nulla di quegli anni: così, uscendo dalla sala, qualcuno possiederà qualche conoscenza in più, avrà scoperto quella che potrebbe esser stata la vita dei suoi nonni, o forse, addirittura, avrà compreso da dove veniamo. Però questo deve avvenire con una storia psicologicamente applicabile all’oggi. Io citai soprattutto il padre di Erika[7]. Quel padre è pazzesco. Era lì che aspettava la figlia che ha massacrato madre e fratello. Quel genitore è andato oltre ogni immaginazione. Io penso che l’idea di inserire un delitto, con lo scopo di sciogliere il percorso narrativo della storia, sia nato anche dall’episodio del padre di Erika. La storia, all’epoca, rimaneva circoscritta a una paginetta.

Il titolo del suo film Il papà di Giovanna disvela immediatamente l’indissolubile legame che unisce i due personaggi al punto tale che, per definire Michele, è necessario chiamare in causa Giovanna. Quel che conta in questa storia non è Michele Casali in se stesso, ma Michele Casali in quanto papà di Giovanna. E, forse, non esiste altro Michele che questo. La centralità del padre deriva da una sua maggior possibilità d’immedesimazione o ci sono altri motivi che l’hanno indotta a puntare su questa figura piuttosto che su quella materna?

No, la scelta è dovuta al fatto che io volevo raccontare, testimoniare, quello che è il rapporto, la corsia preferenziale che intercorre fra una figura paterna e una figlia: una ragazza, una femmina, una primogenita femmina, oppure una figlia unica (come in questo caso). Il rapporto tra un padre e una figlia (rapporto che io ho vissuto in prima persona avendo una figlia femmina oltre a due figli maschi) è di una qualità molto più profonda, molto più intima rispetto a quello tra padre e figli maschi. C’è una complicità, c’è un comprendersi, c’è un tipo di conoscenza che fa sì che il papà percepisca, meglio di quanto non faccia la madre, il dolore, il rammarico, la sofferenza di questa sua figlia, di questa sua creatura. L’idea iniziale fu questa. Tutto cominciò partendo dal mio chiodo fisso per l’aspetto estetico. Ho la convinzione, che mi deriva da una cultura antica, che la ragazza debba essere graziosa. Oggi voi ragazze siete tutte graziose: la vostra scala di valutazione va dalle graziose alle belle. Invece, nella società dalla quale provengo io, non era assolutamente così. Penso che, avendo vissuto in un’epoca in cui l’avvenenza era un dato raro (le ragazze non si curavano particolarmente), ho partecipato fortemente a questa forma d’ingiustizia. Questo argomento viene anche trattato in un altro dei miei film, Una gita scolastica, la cui storia parla di mia zia Laura che non era bella e che per conquistare un ragazzo, accattonare una storia d’amore, arriva addirittura a dare in cambio dei regali. Questa è una cosa molto avvilente. Il tema era l’ingiustizia di vedere come una ragazza soffra di non essere al centro dell’attenzione dei ragazzi, e di riflesso, anche delle amiche.

Inizialmente avevo il titolo; pensavo a come un padre soffra nel vedere una figlia infelice, senza però arrivare ai problemi che poi troveremo ne Il papà di Giovanna. Mi bastava parlare di un padre che vive nel medesimo ambiente della figlia; un contesto allargato; che non si limiti alla frequentazione famigliare, ma che addirittura insegni nella scuola frequentata dalla figlia e che quindi possa verificare quotidianamente la sua infelicità fino al punto di essere indotto addirittura a barattare una promozione con un corteggiamento; scendendo a compromessi che sono dolorosi, ma umani; che corrispondono a quello che avrei fatto io. Allora scrissi questa paginetta (ben dieci anni prima della realizzazione del film) che aveva per titolo Il papà di Giovanna. La storia parlava di questo padre che aveva una figlia brutta e una moglie bella e che soffriva dell’ingiustizia che questa figlia assomigliasse a lui anziché alla moglie e quindi cercava in qualche modo di risarcirla. Tuttavia la storia non andò avanti; rimase quella piccola pagina: mancava uno snodo essenziale, ovvero che questa figlia, a un certo punto, rompesse il suo rapporto con la ragione, che diventasse pazza e compisse quel gesto inconsulto di uccidere la sua amica. Questa è la genesi del film.

In un’intervista a proposito di Dancing Paradise, uscito nel 1982, si è parlato della figura del padre. Alla domanda: «Quindi può darsi che prima o poi dedichi interamente un film alla figura del padre?» lei aveva riposto: «Mi piacerebbe, ma è complicato. In una famiglia e rispetto a quella della madre, la figura del padre rimane sempre più in ombra, poco definita»[8].

Quando feci quella dichiarazione, ero in un’età in cui non avevo ancora elaborato, probabilmente, quella conoscenza che poi produce l’assenza. Io sono padre, ma non ho mai avuto un padre perché a dodici anni l’ho perso, quindi la mia conoscenza della figura paterna si fonda solamente su me stesso, non sull’aver visto e avuto come esempio un modello paterno di riferimento (che mi sarebbe stato sicuramente di qualche giovamento) e nei riguardi del quale io, diventando sempre più grande, fino a essere anziano, ho accumulato sempre più nostalgia. Inizialmente non mi mancava la figura paterna, anzi, devo dire che non avere un padre ci ha quasi avvantaggiati perché nostra madre è stata molto più generosa. Le madri, in genere, soprattutto se vedove, permettono ai loro figli di fare quello che vogliono, sono molto più disponibili. Il padre, invece, è una figura molto più rigorosa: lo vedi meno, è più severo, pretende di più, è più autoritario. L’assenza di nostro padre ci ha molto avvantaggiati in tutta la prima parte del nostro percorso umano. Nella seconda parte, però, ci siamo trovati a dover rendicontare, a non avere un modello, un’interlocuzione. Io adesso sento moltissimo l’assenza di mio padre. Da questo sentire è iniziato un percorso che è costituito da Il papà di Giovanna, da La cena per farli conoscere, e da Il figlio più piccolo. In questi tre film compaiono altrettanti padri e, sicuramente, quello de Il papà di Giovanna è il migliore; gli altri due sono un po’ più scadenti: quello de Il figlio più piccolo è il peggiore. Ciò che conta è che siano tutte figure paterne.

Se posso permettermi una domanda intima, vorrei appunto chiederle una cosa riguardo a suo padre: ho letto la sua autobiografia e mi è piaciuta molto. Ho trovato toccante la parte relativa al padre che ha perso quel 10 agosto 1950 e del quale mi ha appena accennato. Avrebbe voluto fosse somigliante a Michele Casali?

Beh, un padre come Michele Casali, per quanto produca danni, chi non lo vorrebbe avere? Un padre che a un certo punto scende negli inferi, segue la figlia nella sua follia, arriva a straparlare come lei. Voglio dire: se rinuncia a tutto per la figlia, io credo che sia una figura genitoriale esemplare.

Ottima l’interpretazione di Orlando e di Alba Rohrwacher. Alcuni critici parlano di un’eccellente prova d’attori, diversamente dalla realizzazione generale del film. Pensa sia possibile una simile discrepanza? Ad esempio, Paolo D’Agostini – la cui recensione è comunque positiva – rileva una «mancanza di rifinitura», soprattutto nel contorno («centratissimi e finissimi i personaggi principali»)[9]. Questo aspetto è legato alla sua prolificità?

Io penso che quest’interpretazione sia dovuta soprattutto a una grande incompetenza di chi scrive. Noi abbiamo, a livello di recensioni, una marea di figure parassitarie che si occupano di cinema, che parlano di cinema, che scrivono di cinema, che insegnano cinema e che sono così prive di talento, così prive di quella strumentazione che dovrebbe essere indispensabile per poter capire qual è la differenza fra un bravo attore e un attore non bravo. Io so per certo di avere uno straordinario orecchio per la recitazione…

Le viene anche riconosciuto.

No, lo so! Non mi importa che mi venga riconosciuto. Quando dico: «Non sono stato un grande jazzista, ho smesso di fare il jazz perché non ero bravo» riconosco i miei limiti. Ecco, per la recitazione so di essere bravissimo. Lo so, perché so qual è la verità e so che non sempre certi attori miei sono perfettamente intonati. E penso che con Il papà di Giovanna il livello medio degli attori sia straordinariamente alto. Anche nelle sue parti in cui drammaturgicamente è richiesto un coinvolgimento emotivo molto forte, sono tutti estremamente credibili. Perfino Greggio, persino Serena Grandi, che sono gli interpreti più a rischio, quelli più borderline, sui quali si poteva in qualche modo incespicare, sono credibili. Io rivedo il film adesso e lo sento totalmente armonico. Sento che c’è una verità di fondo che porta il film fino alla fine; non c’è un momento di disomogeneità o esagerazione. Persino nella scena finale, che è quella più rischiosa, una scena dove veramente l’emozione è al massimo: Delia esce dalla sala cinematografica e dall’incontro con padre e figlia nasce un dialogo delicatissimo, che può quasi diventare un po’ feuilleton. Un dialogocosì pudico, così trattenuto e così sottile e così debole, così intimo da confermare un grande equilibrio. Il rischio di questo film poteva essere Giovanna. Alba poteva approfittare della situazione, nel momento in cui la mente di Giovanna comincia a vacillare. A molti attori succede perché quando hanno a che fare con le diversità, indugiano, eccedono. Ecco, questi attori quando eccedono piacciono molto a chi scrive di cinema.

Il tipo di interpretazione di cui ha appena parlato risulta meno credibile rispetto a un’interpretazione come quella della Rorhwacher…

Quelli che scrivono di cinema non hanno questo tipo di sensibilità. Io veramente mi trovo moltissime volte in totale dissenso. Perché spesso non hanno, non dico competenza, non hanno talento. Occorre un talento per scrivere, per comporre una poesia bisogna essere poeti; ma anche per criticare una poesia, per dire «questa è poesia» bisogna essere poeti. Capisce? Allora per fare un’opera cinematografica, cioè cinema nel modo in cui lo intendo io, bisogna avere un minimo di talento per il cinema. Anche per scrivere di cinema bisogna avere talento per il cinema. Invece no, queste persone credono sia sufficiente la volontà, lo studio, l’applicazione, la conoscenza. Non è così. È come quando io ho smesso di suonare: io non ho smesso di suonare perché non avessi studiato o quant’altro, ma perché purtroppo non avevo il talento per fare il musicista. Molti di questi critici non hanno il talento per essere critici cinematografici ma lo vogliono fare perché gli piace farlo. Gli piace dare i voti, perciò lo facciano, ma sono inattendibili, non è il loro mestiere. Magari potevano essere straordinari scultori o pittori o non so… gondolieri. Insomma, potrebbero spendersi bene in qualunque altro ambito. Come io mi sono reso conto di non aver sufficiente talento e ho cambiato professione, così, a un certo punto della loro vita, dovrebbero fare anche loro.

È la differenza fra la passione e il talento di cui parla spesso anche nei suoi film…

Io, quando sento dire «bravissimo», molte volte non riesco a capire come non si rendano conto che non sono capaci, che non è il loro mestiere. Un lavoro non si fa solo con la volontà o con la correttezza o arrivando puntuali, timbrando il cartellino. Sentir dire che ne Il papà di Giovanna ci sono delle dissonanze interpretative mi sembra una cosa sbagliata. Oggi chiunque può dire tutto, lasciamogli dire la loro, ma veramente non è così.

Tuttavia il film ha goduto di un’ottima accoglienza da parte del pubblico alla 65a Mostra del cinema di Venezia, con ben dieci minuti di applausi, diversamente dall’accoglienza meno entusiasta e più polemica da parte della critica. Che cosa conta di più per lei? Il successo presso la critica o presso il pubblico?

Oggi la critica non esiste più. Oggi, purtroppo, la critica non dà nessun tipo di vantaggio. Quando ho cominciato a fare il cinema io, alla fine degli anni ‘60, i critici erano soltanto venticinque. Oggi a Venezia ci sono tremilacinquecento accrediti e si fanno cinquanta film in Italia; allora se ne facevano trecentocinquanta. Questo è il rapporto. I critici allora non erano per niente generosi e neanche con me lo furono. Anche La casa dalle finestre che ridono all’inizio fu stroncato. E non solo quello. Quando invece trovavi la recensione della persona con la quale intuivi ci potesse essere un’affinità, ti aiutava a crescere. Un nome tra tanti può essere Pietrino Bianchi…

…ma anche Tullio Kezich…

…Tullio, Gian Luigi Rondi, son stati critici che mi hanno aiutato a capire quello che facevo. Perché molta parte di quello che fai ha a che fare con il tuo inconscio, non è consapevole. Tu racconti una storia, ma in realtà, dentro la storia, c’è una parte di te che emerge con urgenza, che tu immetti nella storia, che non ha niente a che fare con la ragione o con la tua volontà. La deduce chi non ti conosce, chi guarda. Allora essere aiutati, accompagnati, prendersi per mano e farlo assieme questo percorso, sarebbe la cosa capace di dare significato a questo tipo di professione. Perché altrimenti ci si limita a dare i voti, non si sa bene legittimati, autorizzati da chi. Chi decide che lui debba dare dei voti a me e non io a lui? Perché non c’è reciprocità? Io aspetto tutta la vita che mi diano i voti questi critici come la commissione all’esame di maturità, solo che almeno all’esame di maturità avevano delle competenze, erano stati nominati dai ministeri. O prendiamo come esempio i giudici dei tribunali; se un giudice mi dice: «È condannato a un anno di…» si capisce perché. Mi condannano, mi assolvono, mi premiano. Comunque è così. La cosa più grave che questo atteggiamento provoca è l’aspetto inibitorio: io sono certo, matematicamente certo, che ho fatto il cinema che volevo fare, ma se fossi stato meno inibito dalla critica italiana, se ci fosse stato un periodo sabbatico in cui la critica si fosse girata dall’altra parte, non si fosse occupata di me, io avrei fatto un cinema sicuramente più coraggioso.

Si è sentito limitato dal modus operandi della critica italiana?

Io mi sono sentito, a un certo punto, di dover rendicontare, sul fronte critico, a me stesso e ai miei committenti. La critica italiana è fortemente inibitoria, non è aperta al fatto che il cinema è qualche cosa che deve anche guardare al pubblico, che deve anche avere un approccio popolare. Io certi film li ho fatti veramente più finalizzati a un’approvazione critica che a un’approvazione popolare; questo probabilmente ha fatto sì che la mia carriera sia modesta sul fronte del consenso del pubblico, commerciale. Non ho alle spalle quei grandi successi, quei grandi numeri che invece potenzialmente avrei potuto produrre. Le cito un caso e chiudiamo: il lieto fine. Il lieto fine è il punto di forza della cinematografia nord americana. Lei pensi ai grandi successi della storia del cinema. Perché la cinematografia americana si è imposta? Perché il buono vince sempre e si sposano sempre, o si baciano sempre, alla fine dei film classici. Nel cinema italiano, da un certo punto in avanti, questa cosa viene impedita. Lei pensi che nel giorno della proiezione a Venezia de Il papà di Giovanna, alla conferenza stampa, in una sala immensa gremitissima di giornalisti, ci fu qualcuno che si alzò obbiettando preoccupato: «Ma non è che quello è un lieto fine?». Voleva essere rassicurato del fatto che poi quel matrimonio saltava per aria, la mamma tornava a casa, ma poi non sarebbe rimasta. Questa cosa mi ha fatto vomitare. Io ho avuto una reazione pessima nonostante fosse un giorno di grandissima gioia. La preoccupazione di questi ometti mi ha veramente fatto capire che il provincialismo della nostra cultura arriva a livelli estremi.

Nonostante questi aspetti negativi, lei ne ha riscontrati di positivi: per esempio la capacità del critico di trovare la parte inconscia…

Dovrebbe esserne capace.

Mi pare che Tullio Kezich l’avesse fatto all’epoca di Impiegati.

Era già accaduto in modo meno esplicito. Tullio Kezich mi disse: «Guarda che questo film che tu hai realizzato non ha due protagonisti: sono lo stesso individuo in due parti, in due componenti».

Mentre ne Il papà di Giovanna non c’è stato nessuno di sufficientemente acuto da rilevare qualcosa d’inconscio?

Adesso non ricordo le recensioni. Devo dire che quando i film hanno un successo così inconfutabile, tutti quelli che sono i distinguo possibili e immaginabili, anche gli apprezzamenti critici, non assumono più grande rilevanza, perché si vive come un momento di ubriacatura e questo fa sì che io non abbia letto con la sufficiente attenzione tutto quello che è stato scritto su Il papà di Giovanna. Questo è un film che ha conosciuto un’enorme coincidenza emotiva tra il momento della scrittura e quello della visione, e ciò capita molto raramente. La durata del film, quell’ora e quaranta, per me sarà stata corrispondente a circa un mese e mezzo di scrittura. Ecco: quel mese e mezzo, con le sue scadenze, la sua puntualità e la sincronia più totale, ha coinciso con il grafico emotivo che del film è stato recepito. Ad esempio: se mercoledì 27 giugno io ho scritto la scena di Giovanna che corre perché il padre le ha portato i guanti della madre, e ho pianto davanti al computer, dopo un’ora e due minuti dall’inizio del film, tutta la gente che ha visto questa scena ha pianto. C’è stata una sovrapposizione temporale, una coincidenza emotiva dove non si è sbagliato un attimo. Il percorso emotivo di Michele Casali e di sua figlia rifletteva, replicava, si riproduceva nelle lettere che ricevevo, nelle proiezioni in sala alle quali ho assistito. Questo film non manca un attimo di emozionare e tutto quello che io ho vissuto su me stesso, facendomi anche male –perché è un film doloroso –, si produce con lo stesso dolore in chi viene a contatto con questa storia, in modo meraviglioso. Quando un film è così, diventa estremamente rassicurante, perché vuol dire che ci assomigliamo tantissimo. E io che l’ho pensato e realizzato non devo essere più lusingato di te che l’hai vissuto. È bello perché tu devi sentirti contenta poiché mi somigli, perché sei come me, perché condividiamo le stesse emozioni. Quindi tutti quelli che ci inducono a vederci sempre più diversi, sempre più distinti, mettendo sempre in campo più le differenze che le similitudini, non hanno potere. Questo dà senso al mio cinema. Il mio cinema è un cinema che abbraccia le persone soprattutto guardando agli emarginati, agli sconfitti, ai timidi, ai complessati. Insomma: veramente una banda di soccombenti, che sono destinati a voler essere felici con un’ostinazione struggente, però con molta fatica, con problemi. Essi sono gli sconfitti dalla vita. Sono io. Io mi ci riconosco totalmente. Ed è bellissimo pensare a quando ricevi dei messaggi che incominciano tutti con «Anch’io», «Caro Pupi, anch’io…». Adesso, con la mia autobiografia, ricevo un sacco di lettere di gente che scrive «anch’io» come se l’avessero prodotta loro e a me fa piacere che l’abbiamo scritta insieme, perché non deve essere una cosa elitaria. Ecco perché insisto nel dire che il cinema deve essere una cosa comune, un’interlocuzione allargata. Purtroppo lo è sempre meno, e diventa sempre più per pochi perché si favoriscono, si premiano, i film più complessi, più complicati, più astrusi, dove le storie sono le più pazzesche, dove la quotidianità è considerata un peccato mortale. Invece è nella quotidianità che noi riusciamo in qualche modo a interloquire parlando la stessa lingua, avendo tutti un cellulare, sedendoci e accavallando le gambe nello stesso modo. Nonostante questo, il cinema più avvantaggiato, più valorizzato è quello che guarda all’eccesso, al diverso, alla stravaganza, alla trasgressione, alla denuncia. Quanta denuncia, quante dita puntate, quanti maestri, quanti geni. È un atteggiamento che fa sì che io sia totalmente alternativo. Io credo che il cinema sia il mio. Cioè, credo che l’idea di cinema giusta sia la mia.Ultima domanda…

Visto che è l’ultima, le faccio la domanda che preferisco. «Da uno che sa dipingere ciò che si vede a uno che sa dipingere quello che non si vede»[10]. Questa è la dedica di Michele Casali a Morandi e, a mio avviso, una delle frasi più belle del film. Sempre Tullio Kezich, parlando del suo film Fratelli e sorelle, del 1992, rilevava il suo talento per individuare nei rapporti umani l’inespresso e l’inesprimibile[11]. Cosa ne Il papà di Giovanna è l’inespresso? Cosa l’inesprimibile?

Io credo che questa sia una grandissima storia d’amore. Tutto quello che muove questo film è l’amore. Tutto quello che fa il padre ­– che rimane innamorato della moglie per sempre, ma sa di dover volere più bene alla figlia – lo fa per amore. Tutto, ogni azione che la figlia compie è per amore, perché è innamorata di un ragazzo e lei pensa, impazzendo, di poterlo avere. La figlia è innamorata della madre e vorrebbe essere come lei. Credo che persino la madre sia innamorata. Io ho cercato di rimettere insieme le parti che costituiscono l’inespresso: non so se in questo film qualcuno dice mai «ti amo». Non credo. È una storia violenta, però l’affetto rimane l’elemento dominante: il punto di forza del film. Mi piace molto aver immaginato questa dedica che ha a che fare con il mistero della sacralità, del saper vedere oltre, dello sguardo, del talento. Anche in altre mie opere parlo del talento. Per esempio, in Ma quando arrivano le ragazze? Tornando a Il papà di Giovanna, Michele Casali e Giorgio Morandi sono due compagni di banco: uno sa disegnare benissimo, ma solo quello che si vede, mentre l’altro crea cose inspiegabili, che hanno a che fare con l’ineffabile, che non si sa come definire. È una domanda, la sua, che è bella in quanto tale, ma è anche bello che non abbia una risposta. Come si fa ad andare oltre la domanda? Secondo me la bellezza di questa domanda sta nell’assenza di una risposta attraverso le parole, attraverso la ragione. Se le dessimo una risposta, la mortificheremmo. Io non ne sono capace. L’inespresso è una sensazione, è una cosa che dovrebbe permettere a lei, ad esempio, di annusare, di fiutare, di avvertire­ – mentre parlo, vedendo un mio film o leggendo qualcosa scritto da me – che sono io. È un profumo, un sapore. Questo è l’inespresso; se le venisse chiesto: «Chi è Pupi?» dovrebbe rispondere: «Io so chi è però non so spiegarlo!». È l’identità. È il tono di voce, la calligrafia. A me è capitato di conoscere autori, scrittori, registi dei quali avevo amato l’opera e che poi ho trovato totalmente dissonanti rispetto ai loro lavori. Questo mi ha provocato una delusione tremenda. Di conseguenza non mi sono piaciute più neanche le loro opere perché mi sono detto: «Io non ho capito veramente quel film!». Invece, quando c’è assonanza, c’è a un livello che è indefinibile, ma che può essere percepito e che coniuga tutto.Si tratta di quel collante che è fatto da un qualcosa che non è parte dei sensi e che tiene insieme tutto ciò che è inesprimibile: è un tocco, è la vita.Forse è quello che una persona dovrebbe immettere in tutto ciò che fa, sia che frigga un uovo, sia che scriva un copione o che viva una storia d’amore. Tutto quello che una persona fa dovrebbe essere riconducibile allo stesso fulcro, aver gli stessi titoli di testa e gli stessi titoli di coda o la stessa copertina. Essere messo dentro lo stesso contenitore: quel determinato uomo, quella determinata donna. È l’identità.I molteplici incontri che tengo hanno spesso come tema centrale l’identità intesa come sinonimo di talento. Ognuno di noi ha un talento giacché ognuno di noi dispone di una propria identità che consiste nel fatto di essere non replicabili, irripetibili, di non aver precedente, di essere addirittura, parlando in senso trascendente, i prescelti. L’eccezione. Ecco, il succo della questione, per me, è riuscire a mettere noi stessi in tutto quello che facciamo. Riuscire a riconoscersi.

 

 

[1] Cfr. Roberto Silvestri, 2008, “Dopo revisionismi e «casi» assurdi Venezia riscopre una tragedia etnica”, il manifesto, 2 settembre: 15; e Andrea Bellavita, 2008, “La mostra di Venezia 2008”, Segnocinema, a. XXVIII, n. 154, novembre-dicembre: 60.

[2] Cfr. Maurizio Porro, 2008, “Avati: fretta e mancanza di humour La fiction di oggi uccide il cinema”, Corriere della Sera, 1 settembre: 39.

[3] La miniserie sopracitata è stata trasmessa a partire da domenica 29 dicembre 2013, in sei puntate, su Rai1.

[4] Cfr. Silvestri, 2008, “Dopo revisionismi e «casi» assurdi Venezia riscopre una tragedia etnica”, il manifesto, 2 settembre: 15 e Avati in Pacoda, 2008, “Avati: «Ho ritrovato la casa dell’infanzia», il Resto del Carlino, 12 settembre : 27.

[5] Cfr. Rossi, 2008, “E Pupi Avati inventa il revisionismo ‘psicologico’”, Il Secolo d’Italia, 2 settembre: 1, 13.

[6] Kezich, 2008, Corriere della Sera, 12 settembre.

[7] Avati si riferisce a Erika De Nardo, la sedicenne che il 21 febbraio 2001, aiutata dal fidanzato, si macchia del duplice omicidio della madre e del fratello.

[8] Maraldi, 1980, Pupi Avati. Cinema e televisione, Cesena, Centro Cinema città di Cesena; 2 ͣ ed., 1986: 43.

[9] D’Agostini, 2008, la Repubblica, 12 settembre.

 

[10] Avati, 2008, Il papà di Giovanna, Milano, Mondadori : 114.

[11] Kezich in Sarno, 1992, Pupi Avati, Pavia, Il Castoro Cinema; 2 ͣ ed., 1993 : 24.