Film che all’epoca ebbe un successo controverso (all’estero, sulla scia di Rashomon e dei film di Mizoguchi degli anni immediatamente precedenti, vinse una palma d’oro e un oscar, mentre in patria fu tacciato di strizzare l’occhio al gusto occidentale per l’esotico), Jigokumon (La porta dell’inferno, 1953) riporta all’attenzione internazionale Teinosuke Kinugasa, che già si era spinto in Europa negli anni Venti per presentare uno dei suoi due capolavori di taglio avanguardista: Jūjiro (Incroci, 1928). Tratto da un’opera di Kan Kikuchi, Jigokumon ha il sapore di un racconto morale di stampo buddista: il protagonista Morito, un valoroso guerriero, cade vittima di una passione scellerata per Kesa, una donna incantevole ma, ahimé, già sposata; non ricambiato, decide di ucciderne il marito costringendo l’amata a seguirlo, ma Kesa si sacrificherà al posto del coniuge Wataru, risvegliando dalla follia Morito con la propria morte; risparmiato da Wataru che non intende sottrarlo al tormento del rimpianto, all’uomo non resta che espiare i propri peccati per il resto della vita, dopo aver preso i voti.

Jigokumon si fa notare innanzitutto per l’allestimento sontuoso che, attraverso kimono dalle tinte accese, veli variopinti e stendardi rossi e viola che si stagliano sui cieli azzurri, bene mette in risalto le qualità dell’Eastman Color adottato per la prima volta dalla Daiei, la casa produttrice. È in particolare l’uso dei veli semitrasparenti a donare ricchezza alle inquadrature, stratificandole tramite sovrapposizioni di tinte diverse (ma l’effetto dei veli, così come dei graticci che ugualmente si frappongono tra l’obiettivo e i personaggi, è anche quello di ingabbiare questi ultimi nei loro destini, in una vicenda il cui esito scontato e ineluttabile sembra decretato sin dalle prime sequenze). Il gusto pittorico di cui il film fa sfoggio riecheggia inoltre nelle vivide rappresentazioni dell’inferno dipinte sul portale che dà il titolo all’opera e incombe su di essa, e negli emakimono (pitture su rotolo di carta) a tema guerresco sui quali si apre il film, a loro volta ripresi, in alcune sequenze, dall’angolazione della macchina da presa che ne riproduce il tipico punto di vista elevato.

Accantonati i colori scintillanti della prima parte, un lungo preambolo che gradualmente costruisce l’insana passione terrena di Morito contrapposta alla serafica gentilezza del rivale in amore (quest’ultima resa tanto più commovente quanto più è trattenuta l’interpretazione di Yamagata Isao nel ruolo di Wataru), è tra le tinte notturne e i tenui bagliori lunari della lunga sequenza finale che l’opera di Kinugasa raggiunge il massimo della sua forza espressiva. Essa è strutturata in piani lunghi e solenni, altamente cerimoniali nella lentezza dei gesti e delle andature che li animano, e punteggiata da dettagli di oggetti (fiammelle tremolanti, la luna lontana, veli impalpabili) che si fanno correlativi oggettivi degli stati d’animo, altrimenti inespressi, della silenziosa Kesa e del suo compagno, malinconici e rassegnati di fronte alla caducità della vita e alla vanità delle passioni. Posta in contrasto con la violenza dei gutturali versi di dolore di Morito, che la squarcia con rabbia dopo aver compreso la propria natura mostruosa, la quiete di tali piani, già carica di tensione, appare ancora più intensa.

Giacomo Calorio