Ancora un classico in prima visione, grazie al progetto Cinema Ritrovato al Cinema. Da lunedì 3 marzo, in decine di sale italiane, ecco La grande illusione (neanche a farlo apposta nei giorni del festeggiamento di un’altra grande, la bellezza di Sorrentino). Il film di Renoir, come nei casi precedenti, possiede un bellissimo sito di approfondimento sul film e un’antologia critica da cui traiamo, per coerenza, due stralci, quello di André Bazin e quello del suo allievo François Truffaut. Anche a loro, in fondo, si deve la fama di Jean Renoir, e il suo posto inamovibile nella storia del cinema. A seguire

Non sono sicuro che La grande illusione sia il film più realista di Renoir, ma sono certo che se la sua efficacia è rimasta intatta, questo dipende prima di tutto dalla sua componente realista. Gli indizi sono molti e il più visibile è la molteplicità delle lingue. All’indomani della Liberazione film come L’ultima speranza e soprattutto Paisà spazzarono via fortunatamente le vecchie convenzioni drammatiche che permettevano agli eroi di tutte le origini di capirsi senza difficoltà nella lingua di Shakespeare, Dante o Molière. Per poco tempo purtroppo perché già oggi vediamo ad esempio un cinema ritenuto realista come quello britannico che ci presenta dei film di resistenza che si svolgono in una Parigi dove le portinaie parlano inglese. Molto prima del neorealismo, Renoir fonda il suo film sull’autenticità dei rapporti umani attraverso il linguaggio. Pabst, è vero, l’aveva fatto nella Tragedia della miniera, ma in modo molto meno acuto. Qui il tratto di genio che dà alla trovata tutto il suo sapore umano, è l’uso della terza lingua, l’inglese, tra von Rauffenstein e de Boeldieu, non più lingua nazionale ma lingua di classe che isola i due aristocratici dal resto della società plebea. L’invenzione di un terzo termine è d’altra parte uno dei dati più felici della struttura de La grande illusione sia per quel che riguarda la sceneggiatura che la regia. Abbiamo visto lo sdoppiamento del tema della nobiltà fra Fresnay e Stroheim, ma è bene sapere che all’inizio Rosenthal non esisteva. Ora questo personaggio che aggiunge l’idea di razza all’idea di classe, approfondisce in maniera fondamentale il senso del film contribuendo nello stesso tempo a evitare il carattere schematico dell’antitesi Fresnay-Gabin. Realismo anche dei rapporti umani: diciamo verità o meglio ancora veracità. Veracità peraltro forse meno sensibile nei rapporti fra i personaggi principali che, senza diventare mai dei simboli e mantenendo un senso del pittoresco sempre straordinariamente gustoso, risentono però delle esigenze drammatiche della sceneggiatura, di quanto non lo sia quella che Renoir ha saputo creare fra il primo piano dei protagonisti e tutto il secondo piano della comparse: le guardie tedesche, i soldati semplici, i sottufficiali e ufficiali sono disegnati con una veracità stupefacente (non diciamo più una verità, che è ancora relativa all’esperienza di ognuno). Questo realismo non è quello della copia , ma un’invenzione dell’esattezza che sa restituire, al di fuori di ogni convenzione, il dettaglio insieme documentario e significativo. L’invenzione di un personaggio come il signor Arthur, e la sottile complicità che intreccia con i suoi prigionieri, è una creazione che sfiora il sublime. Il suo gioco di scena quando Carette, davanti alla festa, gli grida sopra la testa degli ufficiali superiori: “Ti piace, Arthur”, è un’istante geniale di cinema puro. E che dire dei piani abbastanza brevi in cui scorgiamo gli ufficiali inglesi: tutta una cultura è evocata in pochi secondi senza che nessun particolare significativo produca mai l’effetto di ciò che è “tipico” o atteso. In realtà si deve parlare qui di invenzione e non di una semplice riproduzione documentaria. L’esattezza del dettaglio in Renoir è tanto il prodotto dell’immaginazione quanto dell’osservazione della realtà da cui sa sempre liberare il fatto significativo ma non convenzionale. La sequenza più esemplare da questo punto di vista è probabilmente le celebre scena della festa con l’annuncio della riconquista di Douaumont. Da questa brillante idea un regista abile non poteva fare a meno di realizzare un pezzo di bravura; ma Renoir vi aggiunge dieci trovate che la trasformano in qualcosa di ben più importante di un pezzo di antologia, un solo esempio: l’idea di far intonare La marsigliese non da un francese, ma da un ufficiale inglese travestito da donna. È la molteplicità di queste invenzioni realiste che rende solida la stoffa de La grande illusione e che oggi mantiene intatto il suo splendore.

André Bazin (1958), ora in Jean Renoir,  Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2012

 

La Grande illusion (1937), il meno contestato dei film di Renoir, è costruito sull’idea che il mondo si divida orizzontalmente per affinità, e non verticalmente per barriere. Se la seconda guerra mondiale, e soprattutto il fenomeno dei campi di concentramento, ha intaccato la tesi esaltante di Renoir, gli attuali tentativi “europei” mostrano che la forza di questa idea era in anticipo sullo spirito di Monaco. Ma La Grande illusion è ugualmente un film in costume non diversamente da La Marseillaise, perché vi si pratica una guerra ancora improntata sul fair-play, una guerra senza bombe atomiche e senza torture. La Grande illusion era dunque nient’altro che un film di cavalleria, sulla guerra considerata, se non come una della belle arti, per lo meno come uno sport, come un’avventura in cui si tratta di cimentarsi tanto quanto di distruggersi. Gli ufficiali tedeschi stile Stroheim furono ben presto esclusi dall’esercito del Terzo Reich e gli ufficiali stile Pierre Fresnay sono morti di vecchiaia. La grande illusione consiste quindi nel chiedere che questa guerra sia l’ultima. Renoir sembra considerare la guerra come un flagello naturale che ha i suoi aspetti positivi, come la pioggia, il fuoco; e si tratta, come dice Pierre Fresnay, di “fare la guerra educatamente”. Secondo Renoir è l’idea di frontiera che bisogna abolire per distruggere lo spirito di Babele e riconciliare gli uomini che continueranno tuttavia ad essere divisi per nascita. Ma il denominatore comune tra gli uomini esiste: è la donna, e l’idea più felice del film è senza dubbio, dopo l’annuncio della riconquista di Douaumont da parte dei francesi, di fare intonare La marsigliese da un soldato inglese travestito da donna che si libera, cantando, della parrucca. Se, contrariamente a molti dei film di Jean Renoir, La Grande illusion ha entusiasmato tutti, subito e ovunque, è forse perché Renoir lo ha girato a quarantatré anni, vale a dire a un’età corrispondente a quella del suo pubblico. Prima di La Grande illusion i suoi film apparivano giovani e aggressivi, poi sembrarono disincantati e sferzanti. Infine, La Grande illusion, bisogna riconoscerlo, nel 1937 era in ritardo sui tempi se si pensa che un anno dopo, in The Great Dictator (Il grande dittatore, 1940) Chaplin andava già abbozzando una rappresentazione del nazismo e delle guerre che non rispettano la regola del gioco.

François Truffaut, I film della mia vita, Marsilio, Venezia 1978