1953. All’apogeo della carriera e del sodalizio artistico con la musa Gianna Maria Canale, Riccardo Freda si cimenta con la prima opera a colori. In quello che sarà il suo ultimo film per la Lux – beneficiando di un cospicuo budget e di una notevole libertà di movimento – il regista restituisce un ritratto sorprendentemente moderno dell’imperatrice bizantina. Nonostante il peso degli anni si faccia più palpabile davanti ad alcune incertezze – fra sentimentalità anacronistiche e occasionali salti logici – Teodora di Bisanzio è infatti ben lungi dall’essere un mero divertissement in costume d’epoca.

La sceneggiatura si spoglia consapevolmente di velleità filologiche, in linea con la poetica frediana: ancora una volta, il maestro si rivolge a un grande pubblico, guardando alle possibilità di portare in Europa un cinema di sapore hollywoodiano, al contempo classico e popolare – se non nazionalpopolare, sul modello di quella mitologia ottocentesca entro la quale ancora non si distingueva una cultura di massa. Non sorprende dunque che la figura dell’imperatrice sia facilmente accostabile a quella di un’eroina romantica; ed è in questo limbo di acronismo, comune a ogni grande classico, che risiede dialetticamente il carattere di attualità di Teodora – ben oltre la portata della maggior parte delle donne rappresentate dal cinema contemporaneo nostrano.

La protagonista, interpretata da Gianna Maria Canale, sfugge alla facile dicotomia borghese prostituta/moglie; evitando, al contempo, di scivolare nella saldatura medievale di una Maria Maddalena penitente. Nell’ardente sensualità, quanto nella sincerità della sua devozione, Teodora è una donna: un essere umano, in tutta la sua irriducibile complessità. Questo è, precisamente, il senso delle parole che la futura sovrana rivolge a Giustiniano sulla balconata del palazzo di Bisanzio, sublimando finalmente nella tenerezza dell’amore la violenta tensione passionale che sin dall’inizio avvince la coppia.

E se purtroppo il personaggio dell’imperatore tende a scomparire di fronte al carisma della consorte, la naturale alchimia fra i due interpreti mantiene viva la sospensione di incredulità dello spettatore – nonostante le saltuarie falle del copione. La felice unione permette alfine di instaurare un vero dialogo fra il patriziato e le istanze del popolo, la cui causa è riconosciuta dalla stessa Teodora come il dono portato in dote al marito; ed è l’amore a essere presentato come unica possibilità salvifica – la lux in grado di restituire speranza agli uomini, al di là delle false lusinghe della volontà di potenza e della bassezza degli intrighi di palazzo.

E benché la figura Teodora si presenti con una sua ambiguità in questo rapporto con la vita istituzionale – ben lontana dalla folta schiera di protagonisti maschili intenti a farsi spazio a colpi di spada nelle stanze dei potenti – il film risulta uno degli sguardi più fiduciosi di Freda sulle possibilità della natura umana: in equilibrio fra un iniziale afflato di cantore dell’eroismo, e l’amara disillusione degli ultimi film.

Teodora di Bisanzio si allinea dunque al corpus maggiore della filmografia del regista, concedendosi senza riserve al grande pubblico cui è stato scientemente destinato da principio. Ma lo fa, encomiabilmente, senza pleonasmi di populismo; e senza timore di affrontare la complessità, per quanto il fascino del film rimanga imperniato sulla pura forza della messinscena, piuttosto che sul labor limae drammaturgico.

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