Questo primo mese del 2016 ha registrato la scomparsa di diverse personalità di grande importanza legate al mondo del cinema. Così, lo scorso 29 gennaio ci ha lasciati anche l’ottantasettenne Jacques Rivette, uno dei personaggi fondanti e fondamentali della Nouvelle Vague, corrente che si pone l’obiettivo di sovvertire il cosiddetto cinéma du papa. Rivette, originario di Rouen, si trasferì a Parigi nel 1949, dove cominciò a frequentare gli ambienti cinematografici e conobbe quelli che sarebbero diventati i suoi futuri compagni. Per rendere omaggio alla sua lunga e importante carriera, siamo andati a recuperare alcuni scritti su e di Jacques Rivette critico e regista: qualche estratto di una conversazione con Serge Daney, testimonianze che lo dipingono già cineasta quando ancora faceva il critico e, infine, una tagliente e polemica considerazione su Kapò di Gillo Pontecorvo e sul cinema di Steven Spielberg.

“…Scherer/Rohmer l’ho conosciuto in quei giorni, anche se molto superficialmente, e sia con Jean-Luc che con Francois ci siamo incontrati nei mesi seguenti. Allo studio Parnasse ridavano la Regle du Jeu. Un martedì ci vado, all’epoca si sapeva che bisognava andarci il martedì: dopo c’era il dibattito. Io ero con Gruault ed ecco che arriva una specie di monellaccio e Gruault gli dice: ‘to’, hai messo la cravatta oggi?’ E lui risponde: ‘sì, in onore di Renoir!’ ed era Francois. Credo che quella sia stata la prima volta che l’ho visto, mentre Jean–Luc credo di averlo incontrato alla Cinémathèque. Ma Suzanne lo conosceva già perché andavano entrambi alla Sorbonne, a filmologia, una cosa nuovissima all’epoca. Credo che Jean – Luc facesse finta di laurearsi per fare contenti i suoi genitori”.

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“Ci sono molti cineasti che, in modo cosciente o incosciente, funzionano su quest’idea del corpo frammentato: non solo il volto, può essere qualunque parte del corpo, ma è evidente che il volto è la parte privilegiata. Ma, quando mi capita di guardare nel mirino, ho sempre la tendenza a tirarmi indietro, anche se dopo mi dispiace, perché il volto da solo … Ho voglia di vedere le mani, e se vedo le mani, ho comunque voglia di vedere il corpo. Sì, ho sempre voglia di vedere il corpo nella sua interezza, e subito dopo quello della persona nell’ambiente, di fronte alle persone in rapporto alle quali quel corpo agisce, reagisce, muove, subisce“. […] “Credo di non avere il temperamento, il gusto o il talento per fare un cinema di montaggio, il mio è un cinema che, al contrario, funziona sulla continuità degli avvenimenti, presi più o meno nella loro globalità. Non è un rifiuto di mostrare dei volti, spesso vorrei forzarmi ad avvicinarmi ai volti, e sono molto fiero quando di colpo riesco a dire: adesso faccio un’inquadratura di un volto. Ma talvolta mi capita anche di non tenerle al montaggio, perché effettivamente non c’entrano niente con il resto del film”.

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“Io credo che la Nouvelle Vague, corrisponda nel cinema, da tutti i punti di vista, a ciò che è stato l’Impressionismo in pittura, ed è Renoir d’altronde che fa questo paragone, intanto perché c’era la volontà di uscir fuori. Di colpo, semplificare tutto, approfittare del fatto che c’è una fase della tecnica che permette di andare fuori, come ha detto Renoir, che citava per altro suo padre: è per il fatto che c’è il colore in tubetti che si può uscire e dipingere davvero sul motivo. Per noi era uguale, abbiamo beneficiato delle prime pellicole rapide, e in effetti sono state davvero messe a punto tre o quattro anni dopo, verso il ‘61/’62, per Paris nous appartient non le avevamo ancora. […] Fatte le debite proporzioni, resta comunque vero che c’è un punto in comune, i film della Nouvelle Vague portano la stessa freschezza che portò l’Impressionismo”.

[La Vedetta – Serge Daney, Conversazioni con Jacques Rivette, in “Jacques Rivette, La Regle du Jeu”]

 

La visione teologica che Rivette ha di se stesso (la vocazione del cineasta) dice il vero su almeno un punto: è sempre da cineasta che ha voluto vedere i film. Fin dal suo secondo articolo per i Cahiers du cinéma, loda Hitchcock perché realizza “dei film per registi”, come del resto Howard Hawks, Jean Renoir, Roberto Rossellini. Il giovane critico aveva 25 anni e si mette subito su un piede, non di eguaglianza, ma di connivenza con i cineasti che ammira. Questa connivenza sarà in seguito singolarmente manifesta nei confronti dei suoi contemporanei, Francois Truffaut o Jean – Marie Straub (che condivide la sua ammirazione per Hawks).

[Il Passatore, Jacques Aumont, in “Jacques Rivette, La Regle du Jeu”]

 

C’è una dualità fondamentale per tutti i moderni e per Rivette in particolare: il progetto o il controllo da un lato, lo spuntare e il sorgere dall’altro. Tutti i suoi film mi sembrano come un progetto di un’intelligenza e una padronanza diaboliche, pur rimanendo totalmente aperti a ciò che può arrivare solo nel momento in cui si gira, particolarmente, beninteso, la recitazione degli attori. Certo, il film moderno è spesso (secondo l’espressione di Rohmer) la registrazione del momento, dell’incontro tra il progetto ideale e i casi, accidenti, asperità o resistenze del reale, cioè anzitutto e in conclusione, in Rivette, la realtà degli attori o la verità degli esseri. Ciò nonostante Rivette è quello che si spinge più lontano in questo incontro tra termini duali, antagonisti/complementari: progetto/caso, ideale/reale. Inoltre il progetto rivettiano, che si aggiunge sempre a quello più generale, può darsi in realtà non sia che pura apertura all’incontro, allo spuntare o al sorgere, come in Out One. Anche se il progetto dei progetti resta sempre, in Rivette almeno, l’incontro (con gli attori) in quanto tale.

[Rivette, cineasta duale – Fabrice Revault D’Allonne, in “Jacques Rivette, La Regle du Jeu”]

 

“Kapò è un film che ho detestato fin dall’inizio. Quando poi Pontecorvo fa quella carrellata su Emmanuelle Riva che muore, mi è diventato insopportabile. È un film che non ho mai rivisto in seguito e che, a questo punto, non rivedrò mai più: era un esempio troppo evidente di qualcuno che filma senza pensare a quello che fa, senza sapere. Un esempio di stupidità e di incompetenza. Non si può filmare qualcosa di così grave, anzi la cosa più tragica del mondo, come se fosse una cosa qualsiasi: è la supponenza di chi si crede cineasta che sconfina nell’assoluta idiozia. […] Personalmente mi sono rifiutato di vedere Schindler’s List, avevo troppo l’impressione che potesse trattarsi di Kapò trent’anni dopo.  Mi è sembrato il tipico caso della grande produzione americana nata per essere un prodotto esemplare che viene esportato e imitato in tutto il mondo. Ma vale la pensa riflettere sul fatto che quando si filma la vita e la morte bisogna farlo con timore e tremore, è una lezione che abbiamo appreso fin dai romanzi di Dostoevskij. Non credo che la televisione sia colpevole dell’attuale degradazione del cinema: Spielberg non viene dalla televisione, viene da Walt Disney. Una scena tipicamente spielberghiana è quella di 1941 – Allarme a Hollywood in cui un generale va al cinema e piange guardando Dumbo”.

[A proposito di Kapò del pudore e della sofferenza, Jacques Rivette – ora in “Jacques Rivette”, Goffredo De Pascale]

 

A cura di Stefano Careddu