La versione integrale restaurata di Heaven’s Gate di Michael Cimino, in queste ore nelle sale italiane, permette alcune riflessioni su quest’opera troppo presto sepolta sotto il suo presunto ruolo di cataclisma produttivo. Proprio ricostituendo un’esperienza di visione diretta, sgravata da tutta la storiografia che ne ha fatto prima un disastro annunciato, poi un cult movie perverso, infine un classico della cinefilia, si può apprezzare davvero l’approccio di Cimino.

La prima cosa che salta agli occhi seguendo l’appassionante e torrenziale epopea del Wyoming è la quantità di iati e di ellissi che I cancelli del cielo possiede, evidente segnale che la vera opera originaria (quella di sei ore che a un certo punto Cimino aveva approntato, poi persa per sempre) aveva una ulteriore serie di passaggi narrativi in grado di spiegare e giustificare personaggi, scelte, snodi, sfumature. Inoltre, dal punto di vista del montaggio, si assiste a una serie di soluzioni che oscillano tra Griffith e lo sperimentalismo “indie” in maniera quasi folle, con controcampi che modificano la percezione dello spazio (molti proprio nel locale Heaven Gate) e dialoghi aggiunti in post-produzione con i personaggi di spalle, che evidentemente non stanno parlando, affiancati a montaggi paralleli sinfonici e maestosi. Poi scene perfette e millimetriche (alcuni dei tableaux vivants più belli dai tempi di Il gattopardo) e altre incompiute, vagamente improvvisate e recitate con straniamento brechtiano (tra cui quella, geniale per assurdità, in cui Chris Walken pare addormentarsi durante un dialogo con Isabelle Huppert per motivi incomprensibili).

Tutto questo ovviamente può essere preso in due modi. La critica americana – e non solo – dell’epoca scrisse cose terribili, che ancora oggi lasciano l’amaro in bocca (“Heaven’s Gate fails so completely that you might suspect Mr. Cimino sold his soul to the Devil to obtain the success of The Deer Hunter, and the Devil has just come around to collect”, Vincent Canby sul New York Times nel 1980), puntando soprattutto su queste incongruenze, sulla follia produttiva, sulla narrazione rapsodica, sulla recitazione discontinua, insomma sui presunti difetti di costruzione, per di più basandosi sulla versione scorciata (e assurda) di 149 minuti.

L’altro modo di prendere il film è riconoscerne l’intensa bellezza e la modernità assoluta, una specie di pezzo di arte americana brutalmente realista dentro una New Hollywood al collasso, che stava per chiudere i battenti all’utopia del cinema d’arte industriale di massa. In questo senso – che a noi in verità pare l’unico per chi ami almeno un po’ il cinema – I cancelli del cielo rimane tuttora una delle opere più sorprendenti di quegli anni, oltre che un western del tutto unico, perché privo contemporaneamente sia della classicità fordiana, sia della parodia leoniana, sia della revisione ideologica di Altman, sia della violenza elegiaca di Peckinpah.

Heaven’s Gate è un film i cui squilibri sono tutti eccezionali e creativi, dove fin dalla festa universitaria iniziale (che culmina con un ballo ancora una volta viscontiano) il respiro dello sguardo autoriale è come una forma organica esterna e sconosciuta alle dinamiche cinematografiche hollywoodiane del periodo, Coppola e Scorsese compresi. Dunque non serve le retorica del bastian contrario per fare di questo fallimento abnorme un capolavoro (per chi non conosce la vicenda, consigliamo il bel documentario visibile interamente su YouTube, Final Cut: The Making and Unmaking of Heaven’s Gate) .

Inoltre, la valenza politica del film oggi emerge ancora più potente, forse per la questione centrale delle migrazioni che proprio in questi anni ci sta investendo. Un’opera-mondo sul capitalismo americano nelle sue origini razziste e predatorie, una riflessione filosofica sulla povertà, la ricchezza e le origini, un melodramma su un triangolo d’amore, un esempio incredibile di matrimonio tra art-house cinema e kolossal, e altro ancora. Ma soprattutto un film di realismo assoluto. Molti giudicano Cimino un visionario, e forse per alcuni suoi film non è sbagliato pensarlo, eppure I cancelli del cielo insegue per prima cosa l’autenticità.

L’approccio – per la terza volta, insistiamo, viscontiano – è quello del catalogo del West, secondo una cocciutaggine ossessiva che permette a Cimino (non lontano dall’approccio che forse avrebbe avuto Kubrick se avesse girato un western) di trovare fonti iconografiche e oggettuali a ogni scena. Le pelli, i mantelli, i fucili, le munizioni, i carri, i cavalli, gli stivali, i cappelli, i gilet, le camicie, le bottiglie, i letti, i comodini, le lampade, le macchine fotografiche, le pistole, le strade, i marciapiedi, gli aratri, le lenzuola, non c’è un oggetto che non componga il sogno sovrumano di “rivivere il west” nella maniera più vera, secondo un’idea di cinema come vivificazione spettrale di qualcosa che restituisce al tempo stesso una realtà e la sua scomparsa innegabile (forse solo il romanzo Il figlio di Philippe Mayer ha fatto qualcosa di altrettanto grande in letteratura).

Ancora due parole sul restauro. Heaven’s Gate viene presentato con l’aspect ratio di 2.40:1, approvata dallo stesso regista, e che prevede in proiezione delle bande nere nella parte superiore e inferiore dello schermo. Poiché il negativo originale del film era stato tagliato di 149 minuti nel 1981 in fase di distribuzione, questo elemento non è stato utile alla ricostruzione della versione voluta da Cimino, lunga invece 216 minuti. Fortunatamente la versione integrale è stata preservata in tre master colore 35mm separati (giallo, ciano e magenta), elementi di sicurezza in grado di riprodurre precisamente il colore su un negativo. Il nuovo intermediato digitale, supervisionato dallo stesso Michael Cimino, è stato realizzato presso la Colorworks di Culver City in California, prima scansionando con Scanity alla risoluzione di 2K ciascun elemento e poi ricombinando digitalmente le scansioni tra loro per ottenere il colore del negativo originale. In aggiunta sono stati apportati piccoli tagli e modifiche ad alcune scene e rimossi gli intervalli, in modo da permettere al regista di recuperare la versione corrispondente alla sua volontà originale. Polvere, sporco, righe, giunte, deformazioni, sono stati rimossi manualmente assieme a instabilità e flickering usando i software MTI, PF Clean e Phoenix, quest’ultimo utilizzato anche per ritoccare la grana.
Una nuova traccia sorround 5.1 è stata rimasterizzata e restaurata a 24bit a partire da un colonna magnetica a sei tracce, sotto la diretta supervisione di Cimino, con l’intento di migliorare la chiarezza dei dialoghi.

Ora non resta che rivederlo ancora, I cancelli del cielo, perché – si perdoni la retorica – solo su grande schermo può vivere e respirare nel suo ambiente naturale.

Roy Menarini