Per una volta, possiamo dire che una data – il cinquantenario della scomparsa – sta stimolando un’attività critica su Totò tutt’altro che banale. E se da una parte l’inevitabile istituzionalizzazione rischia di irrigidire l’attore nel monumento alla memoria, è alla scrittura critica che si chiede di riprendere in mano l’affaire De Curtis, riflettendo sul suo ruolo culturale. Continuiamo a farlo anche noi, questa volta approfittando della proiezione di Totò all’inferno.

 

L’occasione dei cinquant’anni dalla morte di Totò ha spinto pressoché chiunque a celebrarne l’estro immortale, forse ancora invocando una tardiva giustizia che potesse riscattarlo da quella critica che, in vita, fu spesso di inesorabile severità. In realtà non era Totò ad essere criticato ma i suoi film e, di riflesso, le sue scelte professionali. Peraltro mai davvero sue, essendo stato sempre vincolato a produttori che lo trattavano al pari di una vacca (certamente consenziente) da mungere senza sosta. Aspirando al riconoscimento di quell’élite che non apprezzava i suoi film, Totò si è prestato ad operazioni che, al di là degli esiti spesso gradevoli, appaiono oggi ipocritamente “nobilitanti”. Sulla scia del trionfo (post)neorealista Guardie e ladri, dove Steno e Monicelli capirono di dover lavorare entro un difficile equilibrio tra interprete e maschera, improvvisazione e copione, carne e fumetto, ci furono due Totò e Pirandello (L’uomo, la bestia e la virtù, La patente), un Totò e Rossellini (Dov’è la libertà…?), qualche Totò melodrammatico (Una di quelle, Totò cerca pace) e via dicendo.

D’altronde, a parte qualche suprema eccezione (I soliti ignoti, ma anche Napoli milionaria, Arrangiatevi!, Risate di gioia), Totò primeggiava nella farsa, laddove, complice un regista capace di gestirlo, non era costretto a contenersi. La sua maschera poteva emanciparsi dall’esigenza di un ruolo, interprete assoluto soltanto di se stesso e dalla storia raccontata dalla sua faccia sgraziata (“non sono io che comando la mia faccia”, disse in un’intervista ad Oriana Fallaci). Purtroppo molte di queste farse, girate frettolosamente e affidate all’esperienza dell’animale da palcoscenico, risultano mediocri. Massicciamente sfruttato dalla televisione come rassicurante tappabuchi o immancabile protagonista di cicli estivi, il repertorio di Totò presenta tuttavia alcuni film che, di solito per questione di diritti, sono un po’ nascosti.

Fa parte di questa categoria Totò all’inferno, uscito nel cruciale 1955. Dopo essere stato felicemente coinvolto in film più strutturati del solito (i magnifici episodi contenuti ne L’oro di Napoli e Questa è la vita, ma anche quello più di debole di Tempi nostri) e lusingato dal successo popolare della trilogia scarpettiana con Mario Mattòli, Totò fu tentato dal gioco al rialzo. Stanco di arrivare sul set senza una vera sceneggiatura e di acconsentire alle richieste estenuanti dei produttori, pensò ad un film muto, tutto fondato sulla mimica, una funambolica girandola astratta, ritorno alle origini di un cinema già impigrito ed ammaliato dalle nuove tecnologie. Ricordiamo che Totò, garanzia al botteghino dell’epoca, fu il primo attore italiano a sperimentare il colore e il 3D nel lungometraggio.

Il progetto del muto non fu accolto completamente: ne resta l’idea negli otto minuti dell’incipit in bianco e nero, dove Antonio Marchi tenta più volte il suicidio. Una scintilla di genio, un apice surrealista di Totò, uno spettrale cartone animato. Il fatto che ci sia, evento rarissimo, la sua firma sul copione è sintomatico. Ma se il soggetto è accreditato ad Antonio de Curtis, la sceneggiatura è vergata col nome d’arte: che sia un indizio per identificare una celata volontà di sdoppiarsi, rivendicare l’intenzione e al contempo smarcarsi dal risultato? Infatti, al prologo segue una parodia dantesca, con i gironi abitati da personaggi storici e diavoli in libertà, tra scenografie di cartapesta e fiamme sparse. Un catalogo di barzellette in cui il povero suicida (reincarnazione di Marcantonio!) racconta i motivi che lo spinsero a togliersi la vita, rievocando i flashback del mondo reale in bianco e nero (da antologia il gag degli esistenzialisti), mentre l’Oltretomba è in un esuberante Ferraniacolor. Aldo Tonti, l’eclettico direttore delle luci, è qui l’unico, assieme allo scenografo Alberto Boccianti, ad accordarsi all’ipotesi di follia immaginata da Totò, ostile a qualunque naturalismo.

Al contrario di Camillo Mastrocinque, per la prima volta al servizio del Principe, accreditato senza nome di battesimo, di certo non aiutato da uno script che annacqua tutto in un comodo sogno ospedaliero. Il sodalizio tra i due avrebbe toccato il vertice nel ’56 col trittico La banda degli onesti, il capolavoro Totò, Peppino e… la Malafemmina e Totò, Peppino e i fuorilegge, dove si bagna il naso alla commedia e pullulano indimenticabili calembour. Benché Totò all’inferno lasci il sapore delle cose incompiute, il genio comico esplode appena può e il film cresce nel ricordo per la nera crudeltà sottesa di una storia che, ricordiamocelo, parla di morte e con la morte vuole, può, deve scherzare.

Lorenzo Ciofani