Ospitiamo gli articoli dei giovani critici di Parole e voci dal festival, che analizzano il cinema del passato dal proprio punto di vista
Che gli effetti speciali di Avatar (2009) siano stati un vero e proprio capolavoro è fuori discussione. Quello che risulta più difficile comprendere –specialmente se lo si vede per la prima volta nel 2013- è quanto sia stato rivoluzionario ottant’anni fa un film come The Invisible Man, in cui la cupa comicità di una trama fantascientifica si intreccia con l’umorismo del regista James Whale e la grande creatività di J.P. Fulton. Nell’era digitalizzata far scomparire un oggetto è un’attività ormai talmente semplice, che anche uno studente alle prime armi con Photoshop è in grado di compiere. Ma escogitare un sistema per camuffare nella pellicola l’immagine di un uomo, avvolgendolo completamente con velluto nero è un idea geniale che solo ad un mago degli effetti speciali come Fulton poteva venire. L’uomo invisibile, infatti non lo si vede sino alla fine del film, poco dopo che Griffin, il protagonista interpretato da Claude Rains, muore fra le braccia di Flora (Gloria Stuart, la stessa attrice che nel 1998 interpreterà Rose vecchia, nel Titanic). La scena è a mio avviso una delle più belle e commuoventi del film: il corpo di quello che fino ad un secondo prima era stato il tanto temuto uomo invisibile, ricompare. Prima lo scheletro e poi mano mano tutto il corpo, mostrando solo alla fine il volto pallido di quello scienziato che aveva “interferito in cose che non competono all’uomo” (dall’ultima frase di Griffin). La trama è tratta dall’omonimo romanzo scritto da H.G. Whells: uno scienziato, Griffin, viene a scoprire di una misteriosa sostanza, la monocaina, che se iniettata in vena per un certo periodo di tempo decolora qualsiasi essere vivente. Ciò che non sa è che tra gli effetti collaterali della monocaina vi è un lento approdo verso la perdita di senno ed alla malvagità.
Ci troviamo di fronte ad uno dei numerosi “figli” di Dott. Jekyll e Mr. Hyde, che mostrano grande entusiasmo e fiducia nelle nuove scoperte scientifiche, frenato però dal timore per i disastrosi imprevisti in cui ci si può imbattere. L’originalità di The Invisible Man non sta quindi nel romanzo, quanto nell’audacia di averne creato un film in grado di renderne a pieno lo stupore. Fra le tante scene suggestive, quella in cui per la prima volta Griffin decide di togliersi le bende: un paio di pantaloni, una camicia ed una giacca che come per magia si reggono in piedi da soli, lasciando increduli l’agente della polizia Jeffers e gli altri spettatori. Da questo momento si susseguono numerosissime scene comiche, che vedono la polizia e gli abitanti del villaggio di Iring intenti nella cattura dell’invisibile criminale (fino all’esilarante battuta “Agente, c’è un respiro nel mio fienile!”), affiancati da momenti cupi o addirittura drammatici, come il deragliamento del treno o l’omicidio del collega Kemp. Un regalo, insomma, poter ritrovare, una pellicola di così grande valore. Regalo per cui non si può non ringraziare la Universal Pictures (rappresentata per questa edizione del Cinema Ritrovato da Peter Schade) e soprattutto l’equipe di Tom Burton, della Technicolor, che ne ha appassionatamente curato il restauro.
Lucrezia Vita Finzi