Un’espressione ossimorica quale “capolavoro mutilato” si direbbe quanto di più adatto si possa trovare, per descrivere un film la cui essenza è imperniata precisamente sulla contraddizione. Un’ora di pellicola tagliata, una colonna sonora pressoché improvvisata e montata, secondo lo stesso regista, in modo imbarazzante: sfortunatamente, non ci rimane che un abbozzo del disegno originale di Orson Welles. Eppure, nonostante il martirio cui la Columbia l’ha sottoposto, La Signora di Shanghai supera con nonchalance il baratro degli anni e dell’ executive meddling, confermandosi come un classico intramontabile. Allegoria della grande avventura di Welles a Hollywood – un tripudio di ambivalenza, inscenato lungo la sottile linea d’ombra che divide la fascinazione dalla nausea (esistenziale) – La Signora di Shanghai è un’opera di geniale aritmia, guidata da una sorta di ispirata vacuità, da una stilizzazione grottescamente comica librata [..] verso l’assurdo. [James Naramore]. Le lacerazioni pulsionali dell’espressionismo vengono superate nella discesa negli abissi di un Maelström sulfureo, in un crescendo delirante entro cui si mescolano indissolubilmente il reale e il farsesco; la dolorosa tangibilità di un mondo saturo di violenza, e il posticcio inflazionarsi della patina hollywoodiana, nella satirica reiterazione delle immagini simbolo del sogno americano: le inquadrature divistiche di Rita Hayworth, la mise da pin-up, la dissacrante ironia con cui si susseguono dialoghi che oscillano fra il ridicolo e il tautologico, l’alternarsi di pathos e pubblicità radiofoniche. È la storia di un Ulisse irlandese che deliberatamente accetta di sottomettersi al canto della sirena – farsi prendere all’amo, dirà nel film Michael O’Hara (Orson Welles). Per propria stessa ammissione, uno sciocco cavaliere errante dedito a solcare i mari per inseguire la splendida Elsa Bannister (Rita Hayworth), in pellegrinaggio fra un santuario della corruzione e l’altro – a bordo di uno yacht chiamato “Circe”. Ma la caratterizzazione dei personaggi supera le convenzioni del noir, rifiutando l’adesione acritica agli stereotipi del poliziotto buono e della femme fatale. Si ravvisa una complessa staticità, nella tensione inerte fra le forze (a)morali che compone l’occulta partitura della vicenda: non vi è un’aperta conflittualità fra Bene e Male, quanto piuttosto la negazione di un’attiva dialettica fra di essi. Regna sovrana un’atmosfera di collusione, che trascina i personaggi in una dolorosa impotenza: un nichilismo che si esaspera in una razionalità iperanalitica, senza tuttavia riuscire a squarciare il cielo di carta. In ciascuno dei protagonisti alberga una consapevolezza lancinante della crudeltà del vivere, in un mondo senza dei e senza leggi precostituite – entro il quale è la ferocia l’unica regola a dettare invariabilmente la sopravvivenza del più forte. Tant’è che fin dall’inizio Michael riconosce con chiarezza il Male, con la limpidezza intuitiva tipica dei buoni e degli ingenui. Ne addita l’ontologica sussistenza quasi con giovialità: nell’osservare che Elsa è vissuta in una delle città più viziose del mondo, e nel commentare che la meraviglia del mondo non è sufficiente a nascondere la fame e la colpa. E tuttavia per tutto il corso del film si ostina a inseguire ciò che sa benissimo che non dovrebbe inseguire; tant’è che allo spettatore viene dato a malapena il tempo di sospettare cosa possa esserci dietro l’incanto di Elsa – quel sensuale misto di fragilità e glacialità, il fascino diffuso dalle grandi ali nere, ancora bagnate di luce, degli angeli colpevoli. Le vicende si susseguono dunque sul palcoscenico dell’assurdo, dove Bene e Male si annullano in una scala di grigi – entro la quale ciascuno dei personaggi accetta di perdersi, rivelando di essere più sciocco e più complicato di quanto non ci si potrebbe aspettare. È una simpatia di fondo dostoevskjano ad animare l’alchimia fra Michael ed Elsa; quella identificazione segreta fra chi è colpevole e chi è innocente, che aveva interessato Welles sin dai tempi del suo arrivo a Hollywood, per l’adattamento cinematografico di Cuore di Tenebra di Joseph Conrad. [James Naramore]. La Signora di Shanghai ci abbandona in un mondo in cui da soli non è possibile vincere contro il Male – ma neppure perdere, finché non ci si arrende. Questo è l’unico spiraglio di plausibile speranza che Welles lascia intravedere, un fioco raggio di luce che si insinua nel finale – gelando le vene: vi è un ultimo sostanziale rifiuto di abbandonare la contraddizione, nell’ambiguità di un’ultima soluzione che sacrifica la simpatia per la speranza. Allo spettatore l’arduo compito di giudicare se l’Ulisse d’Irlanda, come il Convitato del poema, abbia tratto realmente lezione dal più antico marinaio di Coleridge.  A sadder and wiser man He rose the morrow morn…?   Thi Hòa Evangelisti