Chiesi di Freda a mia madre, almeno per averne un accenno dai tempi in cui il cinema era ancora il pane quotidiano (c’erano periodi d’estate – così riportano i miei- in cui ci si rifugiava in sale soffocate dal fumo per vedere il film “che passava il convento”: buio e fresco a pochi spiccioli). Tuttavia, dovetti arrendermi al fatto che non ne avesse mai sentito parlare; e fu tanto il mio scorno, dal momento in cui mi era stato presentato come uno dei perni autoriali del festival, che mi trovai ad assistere ad Aquila Nera ( Freda d’annata ’46, un inno post-bellico alla vita come “res gestae) quasi con un senso di rivolta generazionale. Da neo-issima cinefila, avrei scovato luci e ombre del grande autore, i significati reconditi, lo specchio di un grande momento di crisi e passaggio ecc. ecc.  

Niente di tutto questo. Mi ritrovai invece confusa in un film dinamico, dalla lettura manichea, in una fabula lineare e trionfalmente accattivante, in un tripudio di zoccoli (si sa che Freda amava i cavalli), belle donne (…e anche le donne), cavalieri (bruti e gentiluomini, più o meno principi), armi, nonché tutto l’armamentario del caso; e, necessariamente, non posso che borbottare tra me l’incipit del Furioso “Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori / le cortesie, l’audaci imprese io canto…”. E l’ambientazione, infine: Russia, indefinito Ottocento; ma anche con un set a Katmandu, l’impressione che lo spettatore riceve di Aquila Nera non sarebbe differente: la verosimiglianza storico-geografica rispetto al racconto di Puškin va giocoforza in secondo piano, dove prima rilevanza assumono gli impeti sanguigni degli uomini e le forze ataviche dei legami familiari; dei rapporti familiari con la proprietà privata e del complesso ruolo, ora mediatore ora catastrofico, della figura femminile tra proprietà, famiglia e uomini in preda al furor. Sono gli ingredienti, ben miscelati, di un’insalatona tardo-romantica ma gustosa, dove la velocità mozzafiato dei galoppi nella foresta fa da contrappunto alle lente note delle scene di quotidiano, allo sviluppo interiore – prevedibile, eppure determinante – dei personaggi.

Alla luce della lezione del primo luglio tenuta da Emiliano Morreale, Goffredo Fofi e Pierre Rissient dedicata al regista, è stato più facile inquadrarne l’opera e sospettare che, forse, la sua esclusione dalla cerchia dei punti di riferimento del cinema italiano e, perché no, internazionale, sia stato un embrione abortito per un contatto tra cinema d’arte e cinema popolare. L’età d’oro di Freda si colloca tra gli anni ’46 e ’63, tra la fine della guerra e il boom economico: frangente perfetto – quanto effimero – per proporre un’idea di cinema come di ininterrotta epopea di valori e archetipi della nostra cultura, quindi propugnarli ad un pubblico quanto più vasto possibile. Un’idea che si prospettava quasi come un’alternativa per la ricostruzione di una comunità lacerata: non per la via dei meticolosi raccoglitori del presente – il cinema neorealista, che Freda cordialmente aborriva – ma per quella meno analitica e politicamente connotata (perciò più pericolosa) dei cacciatori del passato; pur tuttavia, priva della retorica di qualsivoglia regime.

In effetti, la linea di Freda diverge nettamente dallo stile calligrafico del ventennio; s’innesta, d’altro canto, sui confini censori imposti dalle prime esperienze alla Lux Film, ma ha il merito pescare liberamente – e alla rinfusa – dal grande serbatoio di modelli narrativi che furono il romanzo e il racconto ottocenteschi (Puškin, Hugo, Dumas, Guerrazzi), la storia di lettura idealista, il culto romantico del medioevo, la mitologia classica: il grande bacino collettore, già esplorato con altrettanta agilità dal melodramma del secolo precedente, che può tenere saldo, anche il funzione pedagogica, il vincolo tra arte d’ampio respiro e pubblico di varia estrazione sociale. Inoltre, l’immediata accessibilità presso lo spettatore d’allora del modo frediano di fare cinema è anche garantita dal mantenimento di atmosfere e spunti del cinema muto, quasi a voler ribadire una continuità con forme già assimilate dalla massa.

Mentre negli Stati Uniti del dopoguerra si ebbe cura di conservare un legame con il cinema muto e all’interno dell’epos nazional-popolare, sul vecchio continente invece gli esiti del secondo conflitto mondiale reclamarono la necessità di uno spoglio chirurgico dell’uomo del presente: il taglio “mitopoietico” e “d’azione” – sugli esempi di Hollywood – di un Freda poté passare facilmente come “conservatore”, per non dire “fascista”. E al detonare in Italia del boom anni ‘60, molte personalità polemiche verso un tipo di sviluppo acefalo si trovarono improvvisamente marginalizzate dalle stesse élite intellettuali, arroccatesi in un corale rifiuto del passato. Lo stesso Pasolini non riuscirà ad istituire una trafila duratura di recuperi della tradizione, morendo perso in un mondo che non gli apparteneva più; allo stesso modo Freda, dopo aver lasciato trapelare le patologie della società contemporanea (fobie, nevrosi, sdoppiamento) ne L’orribile segerto del dottor Hitchcok, ne Lo spettro – tra le ultime pellicole, horror precursori dei tempi – perde autorevolezza sul campo, prospettive a lungo raggio, la creatività stessa.

La sconfitta degli ultimi anni del regista fu esacerbata da un intimo rifiuto verso la critica, verso le forme di pensiero dominanti, verso l’uomo in generale. Eppure, nonostante la cinepresa di Freda sia stata tacciata di un gusto “nazional-popolare”, è legittimo chiedersi: un rispondersi, pur semplice, ma così fitto di simbologie disparate nell’ordine dello spazio-tempo, rimanda davvero, ottusamente, alla sola cultura italiana, tanto da poter venir disprezzata come “nazionalista”, “destrorsa” o “passatista”? O, invece, si avvicina tanto più alla cultura comune di un intero continente? I modelli eroici, le figure di grandi individui della letteratura, della storia e dell’epica, non sono stati forse patrimonio di tutti i popoli alla ricerca di un’identità – spesso anche di forma repubblicana – dell’Europa del XIX secolo, dove non esisteva un vero spartiacque tra cultura elitaria e cultura popolare? D’altronde, proprio l’esclusione dei miti popolari dalla ricerca artistica del dopoguerra ha portato a un progressivo svuotarsi di contenuti del cinema d’entertainment.

E’ quindi dovuto riconoscere, oggi, che l’impostazione di un Freda avrebbe potuto immunizzare lo spettacolo di consumo – che, notare, è quello più ha il potere di influenzare il costume – dalla penetrazione indiscriminata di stereotipi estranei alla cultura europea, e per lo più d’oltreoceano, come dall’involgarirsi dell’intrattenimento di massa. Che, insomma, se fosse stato riconosciuto il valore comunicativo – proprio dell’arte in quanto tecnica e “artigianato”- degli ottimi prodotti di Freda, forse i paradigmi genuinamente pop d’Europa non sarebbero stati degradati a mistificazioni destrorse o semi di qualunquismo; e, forse, se quella linea avesse trovato eredi di aspirazioni alte, massa, cultura europea e arte cinematografica avrebbero trovato confluenza, e una corrente nella storia.

Per ora, è vero, si tratta di un corso interrotto. Ma, se avevo appena abbozzato l’idea di un Freda rapsodo e animatore culturale con Aquila Nera e la lezione del primo luglio, l’ispirazione definitiva mi venne al ritorno a casa dopo Maciste all’Inferno. Chiesi a mia madre se avesse mai visto in sala un Maciste. Freda no, continuava a non ricordarlo; ma i Maciste da bambina erano il pane quotidiano, come lo spettacolo al cinema di infiniti pomeriggi d’estate.

Claudia Ansaloni