Nessun film come quello di Stanley Kubrick si presta alla prova della visione dei giovanissimi. Ecco una prima testimonianza: “2001: A Space Odyssey è un film del 1968, un anno prima dell’allunaggio, diretto dal maestro Stanley Kubrick e tratto da un soggetto di Arthur C. Clarke, che lo ha poi trasformato in un romanzo con ben tre seguiti. Nel 2001, che allora rappresentava il futuro, un’astronave di cinque membri di cui tre ibernati viene mandata verso Giove, ufficialmente per esplorarlo. Tutti i comandi della nave sono affidati all’avanzatissimo computer Hal 9000, l’unico che conosce il vero scopo della missione. Infatti, poco tempo prima, era stato scoperto, sepolto sotto la superficie della Luna, un misterioso monolite nero che mandava delle specie di messaggi radio verso il gigantesco pianeta rosso. Quando però il computer, a detta di tutti e anche della stessa macchina, a prova di errori, sbaglia un calcolo lanciando un falso allarme, i due astronauti coscientemente decidono di disattivarlo. Sapendo che la missione è nelle sue mani e che non può fallire, Hal decide di fare in modo di uccidere tutti gli umani, facendo dell’astronave una trappola mortale. Alla fine prevarrà il protagonista, unico sopravissuto, che riuscirà a spegnere il computer. Toccherà quindi a lui, nel visivamente strabiliante finale, scoprire il mistero del monolite e, in un certo qual modo, anche il senso della vita.

Di tutti i film che ho visto in questa edizione del festival devo dire che questo è stato quello che più mi ha sorpreso e sbalordito. In principio ammetto di aver trovato le scene iniziali un po’ noiose, con il famoso incipit con gli ominidi dalla durata, forse un po’ esagerata, di venti minuti. Forse perché mi sarei aspettato uno space drama alla Gravity o alla Interstellar, che iniziavano già nel pieno dell’azione e finivano con il consueto colpo di scena, e non mi sono reso conto, tranne che alla fine, che Kubrick non fa altro che usare il soggetto offertogli da Clarke come pretesto per creare quella che è, soprattutto nelle scene finali, un’esperienza visiva che cattura il cuore e lo spirito dello spettatore, portandolo, in un vortice di luci, al di là dell’universo e dell’infinito. Gli effetti speciali sono incredibili e nella celeberrima scena del vortice di luce non ho potuto fare altro che guardare lo schermo a bocca aperta mentre il mio stomaco andava su e giù come sulle montagne russe. A ogni suono, inquietante e indecifrabile come l’infinito, il pubblico sussultava e il solido “crescentone” di marmo di Piazza Maggiore tremava come se fosse stato di cartapesta. Su Piazza Maggiore, che nelle precedenti proiezioni era sempre stata teatro di urli, risate e imprevisti che disturbavano la visione, alleggiava invece lo spettrale silenzio dell’universo durante la famosa scena finale del palazzo. Non proverò a spiegare il significato di questo film, che è compito più di psicologi e filosofi, ma posso affermare con sicurezza che non avevo mai visto niente di simile, forse anche grazie alla purezza e limpidezza della pellicola originale di 70mm, e sono sicuro che niente in futuro saprà procurarmi le stesse emozioni provate durante la visione di quest’opera in questo contesto.

Pietro Luca Cassarino