Giovanissime penne si esercitano sui film del Cinema Ritrovato 2016. Questa volta tocca al capolavoro di Coppola, nella sua versione final cut.

Sono molti quelli che si stupiscono quando dico loro di ritenermi un appassionato cinefilo ma allo stesso tempo ammetto di non aver mai visto film ritenuti fondamentali per la storia del cinema come Taxi Driver di Scorsese o Arancia meccanica di Kubrick. Finora la risposta che davo a me stesso era che semplicemente non ero mai stato veramente interessato a guardarli oppure che, tra migliaia di serie televisive e di film più recenti, non ne avevo mai avuto veramente il tempo. Ma dopo aver scoperto, sempre nell’ambito di questo festival, 2001: Odissea nello spazio l’anno scorso e Apocalypse Now quest’anno, sto cominciando a capire la vera ragione. Ci sono alcuni film che, per essere capiti appieno, necessitano che lo spettatore abbia raggiunto una certa maturità ed un certo livello di conoscenza delle cose che vi sono intorno a lui.

Ecco perché, per fare un esempio stupido, guardando Man of Steel due anni fa non mi sono accorto del palese riferimento che il film fa alla filosofia di Platone in una sua scena, mentre, riguardandolo qualche settimana fa, lo stesso riferimento mi è sembrato ovvio e alla luce del sole. Se avessi visto questi film tempo fa, alle porte della mia adolescenza, non li avrei capiti e, probabilmente, li avrei giudicati noiosi e non avrei più voluto vederli, testardo sul mio giudizio. Ecco perché mi fa molto piacere l’aver visto per la prima volta Apocalypse Now di Francis Ford Coppola, nella versione estesa Redux in una splendida pellicola Technicolor, soltanto poche ore fa.

La trama, di per sé, può sembrare semplice e banale: durante l’impazzare della guerra del Vietnam, un ufficiale senza più nulla da perdere e che trova la sua unica gioia nel combattere, il capitano Willard interpretato da un magnifico Martin Sheen, viene arruolato dai suoi superiori, tra i quali uno è un giovanissimo Harrison Ford, per un’ultima missione pericolosa e segreta: dovrà risalire un fiume a bordo di un vagone merci fino al confine con la Cambogia, dove dovrà rintracciare ed eliminare un ex colonnello dell’esercito americano, Walter E. Kurtz, da tempo disertore, che ha organizzato una milizia-setta nella giungla che si prodiga ad attaccare e massacrare chiunque li minacci, che siano americani o viet-cong.

La durata del film potrebbe scoraggiare qualcuno: 197 minuti complessivi, dei quali solo gli ultimi 20 vedono l’entrata in scena del Kurtz di Marlon Brando ed il suo duello fisico e psicologico con Willard. Come ho affermato in precedenza, è bene che qualcuno si senta scoraggiato, infatti molti potrebbero giudicare gran parte del film una noia ed un “allungamento del brodo” inutile. È inutile dire che si sbagliano. Il film, infatti, non è soltanto un film: è un’esperienza. Dal momento in cui Willard accetta di portare al termine la missione, un po’ anche per venire in contatto con una tale personalità, che molti considerano un Dio, non ci stacchiamo mai da lui e dopo un po’ cominciamo a sentire noi stessi la sua fatica, la sua frustrazione, le sue speranze ed i suoi dolori. Cominciamo a capire perché reagisce in certi modi e seguiamo la trasformazione psicologica dell’intera truppa del vascello, che era partita dalla base come un gruppo di giovani spensierati un po’ in cerca di emozioni e che arriva a destinazione come un gruppo di adulti stoici e cinici.

Ci leghiamo ad ognuno di loro, visto anche che li seguiamo per più di 3 ore, e, quando uno di quelli muore, piangiamo come i suoi compagni. Willard è un novello Odisseo, esperto e taciturno, i cui ordini non possono venire discussi, che conosce la natura degli uomini e che sa che deve temerli più della bestia più feroce. Quella che vediamo sullo schermo è un’Odissea, durante la quale i protagonisti incontrano persone e luoghi che vanno e che vengono, nulla è transitorio, tutto scorre, perché il fiume li trascina come il destino inesorabile che li porta pian piano, con calma, verso il giudizio finale. Incontrano lo stravagante capitano Kilgore, interpretato da Robert Duvall, che preferisce far divertire i suoi soldati piuttosto che farli combattere, ed incontrano una famiglia francese, che vive in un’elegantissima magione sulle sponde del fiume che cercano di difendere da generazioni, rifiutandosi di ritornare nel loro paese natale, proprio per orgoglio nazionale ed amor patrio, convinti che finché riusciranno a resistere, la Francia non potrà aver perso la guerra. Ognuno di quest’incontri fa imparare qualcosa alla ciurma e li avvicina, loro malgrado, sempre di più alla mentalità malata ed esasperata di Kurtz, che affascina sempre di più l’assassino Willard. Il viaggio si fa man mano sempre più surreale e, pian piano, i protagonisti si ritrovano sempre più circondati da persone traumatizzate ed esasperate, con basi in preda all’anarchia più totale, in mano a capi improvvisati e fuori di senno.

Man mano che il viaggio continua capiamo perché Kurtz ha deciso di formare il suo esercito e soprattutto perché i viet-cong stanno decisamente vincendo la guerra: perché ci vogliono uomini forti, senza speranze e senza vizi, per combattere, non i soldati americani disabituati dall’ozio e dallo svago alla battaglia. Uomini che, come dirà lo stesso Kurtz, hanno il grandissimo coraggio di massacrare bambini pur essendo padri loro stessi. Uomini decisi a morire, e non a vivere. Tutto il viaggio si conclude con l’ultimo incontro fondamentale, quello con Kurtz in persona, ormai anche agli occhi dello spettatore più un dio che un semplice mortale, che tutti, insieme a Willard, fremiamo per vedere, per costatare la sua vera natura. E qui entrano in gioco il genio di Vittorio Storaro, il direttore della fotografia, e di Marlon Brando. Tra chiaroscuri ed esili filtri di luce quest’ultimo ci sembra una montagna, un agglomerato di muscoli e pelle, massiccio come una roccia, più imponente di tutti gli altri personaggi e con uno sguardo agghiacciante, pazzo.

Dopo aver costruito quasi 2 ore e mezza di attesa così ci viene presentato il colonnello Kurtz, un Marlon Brando irriconoscibile e pazzesco nella forza che riesce ad infondere. Parla poco, ma ogni parola è preziosa agli occhi nostri ed a quelli di Willard. In confronto all’esile e sensibile soldato Brando di Reflections in a Golden Eye, questo rappresenta il suo esatto contrario, la prova, forse, che l’invulnerabilità esiste, e consiste in una tremenda spietatezza e freddezza d’animo. Brando non è più un semplice uomo, egli stesso si è convinto di non esserlo ed è riuscito a convincere tutti gli altri della stessa cosa. Solo forse Willard riesce a vedere le sue intenzioni: semplicemente quelle di provare una tesi. Kurtz non vuol far altro che dimostrare che la tattica degli americani è sbagliata e che, invece, la sua è vincente. Capendo ciò, Willard scopre l’uomo. Ed è l’uomo che ha la forza di uccidere.

Il fine di Kurtz è l’ultima traccia della sua umanità. Il caos non è mai stato caos fino in fondo, c’è sempre stato dell’ordine. Come nell’ordine c’è sempre stato il caos. C’è ordine nell’insensatezza delle azioni di Kurtz come c’è caos nelle programmate e studiate mosse americane. L’ordine non vince contro il caos, ma il caos vince contro altro caos. In conclusione, Apocalypse Now non è un film di guerra, ma un viaggio nello stesso animo umano, nei nostri crucci e nelle nostre pazzie, che cerchiamo sempre di tenere quanto più a freno. Willard ci riesce, pur portando molto caos dentro di sé, Kurtz no, pur essendo il più disciplinato e ordinato di tutti. D’altronde, come dice la cameriera francese in un altro film di guerra passato quest’anno al festival, Westfront 1918: Vier von der infanterie, per fare la guerra bisogna essere pazzi.

 

Pietro Luca Cassarino