“Quando uno è così stupido, o si dà alle biglie o si butta in politica”

Lucido, velenoso, dolente. Ebbero un bel cercare di rilanciarlo, i produttori, con quel finale posticcio; non riuscirono a cavarci un soldo, ottennero solo di rovinare un grande film; e guardandolo oggi sembra impossibile che abbiano creduto di ottenere risultati diversi cambiando l’epilogo.  A tarpare le ali a La Belle équipe furono senz’altro ragioni politiche (uscì nel 1936 nei primi giorni del Fronte Popolare, e a questo è da sempre accostato), ma fu un errore pensare che la gente lo rigettasse solo per colpa dell’ultima sequenza. La gente lo respinse perché spaventa, perché porta i segni di un male profondo e di una ragione insopportabile, se quello che serve alla gente è speranza. Tra i migliori film francesi del periodo, diretto da Jean Duvivier, La Belle équipe andò incontro a ben due flop. Ancora oggi, proprio come il suo regista, meriterebbe senz’altro maggior fama. 

E’ la storia di una compagnia di amici operai (la “equipe” del titolo originale), fratelli di miseria e mai stanchi della vita, che dopo aver vinto 100 000 marchi alla lotteria decidono di costruirsi un futuro insieme nel nome di una solidarietà che mette la loro amicizia al di sopra di tutto. Dovranno arrendersi all’evidenza del proprio errore e pagarne le conseguenze.

Il personaggio centrale è quello di Jean Gabin (che come tutti gli attori mantiene il proprio nome nel film), all’epoca stella in ascesa. Su di lui, portatore di un idealismo cristallino, si abbatte con più ferocia la consapevolezza; proprio lui, uomo della strada con più nulla da imparare, sanguina più di tutti ogni volta che un amico, per una ragione o per l’altra, volta le spalle alla “bella compagnia”. A colpirla è un cancro che si può maledire ma non combattere: la natura umana, nelle incarnazioni dell’amore, della paura, della gelosia, della morte.

Con un ritmo ancora impressionante di commedia e le caratterizzazioni di una farsa popolare, Duvivier fece la cosa più dolorosa che si possa fare: mise in scena una galleria di personaggi capaci, chi in un modo e chi in un altro, di rappresentare un’idea. Poi prese atto della morte di quell’idea, fermandola per sempre nello sguardo fisso e nel passo rigido di un grande attore. Quando all’inizio uno degli amici parte, lascia scritto di considerarlo morto. Questo è quello che viene istintivo fare ogni volta. Ogni perdita una cicatrice, nuova consapevolezza che non genera nulla, che schianta, annichilisce, lascia come gusci vuoti.

Lorenzo Meloni