“Segui la strada di mattoncini dorati!”, e di certo non occorre essere cinefili per cogliere un invito come questo. La yellow brick road de Il mago di Oz, adattamento cinematografico di uno dei romanzi della fortunata serie firmata da L. Frank Baum, è entrata nel linguaggio popolare, anglofono soprattutto, come sinonimo di tutti quei sogni perduti che fanno riferimento all’infanzia.
Basti pensare all’LP di Elton John, Goodbye Yellow Brick Road (1973), ma anche ai numerosi richiami nella musica contemporanea che vanno dai Muse fino a Lady Gaga. Merito anche dei passaggi natalizi a opera della CBS, che hanno contribuito a trasformare un film, che all’epoca della sua uscita ebbe scarso successo, “in un Evento, in un Fenomeno”, come ricordava Peter von Bagh.
Sogno e realtà si intrecciano e aderiscono nei sogni di Dorothy (Judy Garland) che, in una visione – o in una psicosi, le interpretazioni in questo senso non sono mancate – si trasporta in un coloratissimo mondo popolato da streghe, nani, fate, un mago ignavo e bizzarri personaggi alla ricerca della propria completezza sulle note della celebre You’re Off to See the Wizard, per poi rendersi conto che “nessun posto è bello come casa propria”.
Superando i tópos che avevano contribuito a creare l’identità del musical americano negli anni ’30, Il mago di Oz rifiuta lo schema boy meets girl tipo Rogers-Astaire, ma anche quello dell’allestimento di uno spettacolo alla Busby Berkeley. Mervyn LeRoy e Arthur Freed hanno già chiara quella messa in scena di un sogno a colori che sarà il motivo caratterizzante dei musical degli anni ’40, in particolar modo di quelli della MGM. Così, insieme a Via col Vento, Il mago di Oz, la cui lavorazione è un susseguirsi di registi a cui si impone ancora una volta Victor Fleming, diventa la MGM che saluta il nuovo decennio. È il cinema stesso che si evolve.
Infatti se il musical degli anni ’30 era costruito su un’evasione giustificata dalla Depressione in cui Judy Garland vestiva i panni della girl next door, per riprendere un concetto espresso da La Polla, possiamo affermare che l’entertainment che inizia a prendere forma a partire da Il mago di Oz è caratterizzato da accezioni ben diverse. Le stesse che avrebbero dato successivamente origine al mito di Hollywood, in cui il sogno incontra la disillusione e in cui il prodotto cinematografico si fa incarnazione della macchina degli studios, coi suoi aneddoti e con i suoi innumerevoli lati oscuri, in cui la diciassettenne Garland è fasciata al seno per apparire più giovane, in cui uno degli interpreti dei Mastichini si sarebbe impiccato in scena e in cui il cane che interpreta Toto viene pagano ben 125$ a settimana.
In questo senso il Kansas, con il suo bianco e nero polveroso, appare molto più rassicurante del fulgido technicolor con il quale viene rappresentato il regno di Oz. Una lezione che Vincente Minnelli, futuro marito di Judy Garland, avrebbe ripetuto più volte in film come Un Americano a Parigi, Spettacolo di varietà e Incontriamoci a Saint Louis.
Tuttavia, proprio a metà tra la ricerca dell’illusione e il raggiungimento della stessa, abbiamo la celebre sequenza musicale di Over the Rainbow, ancora illuminata dal color seppia del Kansas ma vibrante della calda voce della giovane Judy Garland. Si tratta del grido di speranza più bello che Hollywood abbia mai saputo confezionare, cantato, tragica ironia, da colei che sarebbe rimasta soffocata dalla stessa macchina dello show business. Ma questa è un’altra storia.
Federica Marcucci – Associazione Culturale Leitmovie