Come si fa a diventare grandi se si è omosessuali nel ghetto nero di Miami, con una madre tossicodipendente e un gangster dal cuore d’oro come padre putativo? È questa il racconto di formazione portato sullo schermo da Moonlight, opera seconda dell’afro-americano Barry Jenkins che con Barriere e Il diritto di contare rappresenterà il black cinema agli Oscar 2017 – una pronta risposta dell’Academy alle proteste dell’anno scorso confluite nell’hashtag #OscarSoWhite.

Forse ogni film ambientato in un quartiere nero non può che essere, in fondo, anche un film sulla questione razziale. Eppure Moonlight si smarca dai toni enfatici dei più recenti esperimenti hollywoodiani sul tema (come Selma o The Birth of a Nation), e in questo coming of age tripartito – infanzia, adolescenza, maturità – il film declina l’identità afro-americana in maniera inedita, mettendo in scena le difficoltà di essere diversi laddove vige il diktat dell’eterosessualità, del machismo e della violenza come unico strumento di autoaffermazione.

Il travagliato percorso verso l’accettazione di sé comincia con un battesimo simbolico nelle acque dell’oceano, e dall’incontro con un mentore inaspettato, un Mahershala Ali che più virile non si può: è lui ad incoraggiare il piccolo Chairon all’autodeterminazione (“At some point you gotta decide for yourself who you wanna be, can’t let nobody take that decision for you”), lui l’unico a combattere l’ostinato mutismo del ragazzo.

Se l’afasia (o la droga) sembrano infatti l’unica soluzione per sopravvivere, una certa esuberanza visiva arriva a compensare una sceneggiatura stringata, asciugata per di più da una recitazione sobria e rigorosa: la macchina da presa volteggia a mezz’aria, danza su una colonna sonora eclettica e coinvolgente e cinge i corpi come a volerli abbracciare, per poi soffermarsi sui volti in lunghi primi piani.

L’incantesimo funziona per il primo capitolo del film, sospeso in un’atmosfera sognante, e permane nella seconda parte, la più crudele con il protagonista e con lo spettatore. Ma sembra infine vacillare nell’ultima sezione, più generosa nel minutaggio e forse un po’ troppo didascalica nel declamare, questa volta a parole, ciò che finora era stato solo evocato dai corpi e dai gesti.

Nei suoi momenti più riusciti, Moonlight regala però scene emozionanti e cariche di empatia per personaggi umani e imperfetti, come la giovane coppia protagonista di Medicine for Melancholy (2008), opera di esordio di Jenkins. Il suo si configura così come un cinema sensibile e misurato, capace di alternare sapientemente crudeltà e tenerezza, ma anche profondamente politico nella sua denuncia dell’imperativo della virilità come unico modo possibile di stare nel mondo. Se la black masculinity è il nodo nevralgico in cui si concentrano le contraddizioni e i conflitti della società americana, Moonlight mette in scena questa battaglia simbolica, certo, ma tanto violenta da penetrare fin sotto pelle – nera – dei suoi personaggi.

Maria Sole Colombo