L’uscita contemporanea nelle sale di prima visione e in DVD di Tempi moderni di Charlie Chaplin permette a noi di Cinefilia Ritrovata, grazie al minisito dedicato al film, di estrarre due interventi molto importanti e curiosi, scritti rispettivamente da Graham Greene e Roland Barthes. Sono divisi da più di venti anni (1936 e 1957), ma sembrano dialogare a distanza, poiché entrambi si chiedono quale sia il senso profondo dell’opera e quali le idee di Chaplin sull’America e il capitalismo. Materiale su cui riflettere. A seguire.

Ammiro troppo il Signor Chaplin per ritenere che l’elemento più importante del suo nuovo film sia costituito da quei pochi minuti in cui ci è consentito di ascoltare la sua voce, piacevole e profonda, in una canzone. Il piccolo uomo ha decisamente fatto il suo ingresso nel mondo contemporaneo. Fino ad ora il suo coraggio e le sue vicissitudini avevano sempre avuto un retrogusto ‘antico’, non solo per via delle torte alla crema dell’epoca di Karno, ma per i suoi modi, per quell’abbigliamento singolare, per il suo senso di pathos e quella sua povertà un po’ datata. Un cambiamento evidente c’è stato anche nella scelta dell’eroina: fin qui erano chiare di capelli e carnagione, prive di lineamenti memorabili, con quell’effetto di sbavatura degli acquerellisti alle prime armi. Mentre Paulette Goddard, con la sua capigliatura corvina, sudicia, con quella faccia divertente, urbana e plebea, è una garanzia che il piccolo uomo non rimarrà vittima di un’altra situazione sdolcinata, il pathos della ragazza cieca e del bambino orfano. Per la prima volta il piccolo uomo non si congeda da solo, con la sua bombetta malconcia e il bastone che ondeggia lungo la strada infinita fin fuori dallo schermo. Stavolta si allontana in compagnia, pronto a cogliere quello che il futuro ha in serbo per lui. Fino a quel momento gli era toccato un lavoro in un’enorme fabbrica a stringere i bulloni di una macchina senza nome che gli scivolavano davanti su un nastro trasportatore. Dopo aver lasciato l’ospedale viene scambiato per un leader comunista e quindi arrestato, e dopo aver sventato una rivolta in prigione viene nuovamente rilasciato. Disoccupazione e detenzione fanno da contrappunto alla sua esistenza, così come la fame e i colpi di fortuna, e in un qualche momento il corso della sua vita si lega a un altro essere umano rifiutato dal sistema. Qualunque siano le sue convinzioni politiche, il Signor Chaplin è un artista e non un uomo di propaganda. Non cerca di spiegare ma presenta con vivida fantasia quello che gli sembra un mondo folle e tragicomico che avanza senza una strategia. Ma nel suo disegno della fabbrica disumana non c’è niente che ci lasci supporre che il piccolo uomo si sentirebbe più a casa a Dneipostroi. Chaplin si limita a presentare la realtà senza offrire delle soluzioni politiche.

Graham Greene, Tempi moderni, “The Spectator”, 14 febbraio 1936

 

Invischiato nella sua fame cronica, l’uomo-Charlot si situa sempre un gradino al di sotto della presa di coscienza politica: lo sciopero è per lui una catastrofe perché minaccia un uomo letteralmente accecato dalla fame; quest’uomo non raggiunge la condizione operaia se non nel momento in cui il povero e il proletario vengono a coincidere sotto lo sguardo (e i colpi) della polizia. Storicamente Charlot riprende a un dipresso l’operaio della Restaurazione, il manovale in rivolta contro la macchina, disorientato dallo sciopero, dominato dal problema del pane (nel vero senso della parola), ma ancora incapace di accedere alla conoscenza delle cause politiche e all’esigenza di una strategia collettiva. Ma appunto perché Charlot rappresenta una specie di proletario bruto, ancora al di fuori della Rivoluzione, la sua forza rappresentativa e immensa. Nessuna opera socialista e ancora arrivata a esprimere la condizione umiliata dal lavoratore con tanta violenza e generosità. Il povero si trova continuamente tagliato fuori dalle sue tentazioni. È per questo in fondo che l’uomo Charlot trionfa di tutto: proprio perché sfugge a tutto, respinge ogni accomandità, e nell’uomo non investe altro che l’uomo solo. La sua anarchia, discutibile politicamente, in arte rappresenta la forma forse più efficace della rivoluzione.

Roland Barthes, Mythologies, Paris, Éditions du Seuil, 1957