Fresco dell’ Oscar conquistato nel 1938 per la miglior regia di The Awful Truth con Irene Dunne e Cary Grant, Leo McCarey nel 1939 ripropone l’eleganza della Dunne, questa volta affiancata dal francese Charles Boyer, in Love Affair, una nuova sophisticated comedy dai risvolti melodrammatici. Durante un viaggio in crociera il pittore mancato e famoso play boy francese Michel Marnet (Charles Boyer) – “sono nato per soffrire: non ho ancora visto una bella ragazza da quando siamo salpati” – incontra l’americana ex cantante di night club Terry McKay (Irene Dunne). Entrambi belli, brillanti e annoiati, impegnati sentimentalmente ma non felicemente, non potranno fare a meno di innamorarsi. La benedizione di Janou, la nonna di Michel, ricevuta durante una breve sosta sull’isola di Madera, sancirà l’amore nascente tra i due ma li metterà di fronte ad importanti scelte. Per lasciare i rispettivi promessi sposi e trovare un lavoro si danno sei mesi di tempo e appuntamento al 102° piano dell’Empire State Building di New York per il prossimo 1° luglio. Ma il destino provvederà a mescolare un po’ le carte in tavola mettendo alla prova il loro amore.

Dopo Make Way for Tomorrow  e The Awful Truth, McCarey completa la trilogia sul matrimonio con questa deliziosa commedia che lo stesso regista riproporrà nel ’57 col fedelissimo remake An Affair to Remember con Deborah Kerr e Cary Grant. La prima parte del film scivola leggera, scoppiettante e piena di ironia fra le scene del corteggiamento e dell’innamoramento durante la crociera: “la vita dev’essere radiosa, allegra e frizzante come champagne rosè” dice convinto Michel appena conosce Terry. Ma al termine del viaggio il pragmatismo tutto americano di Terry ricorda ad entrambi, abituati al lusso ma nullatenenti, che per progettare un futuro insieme hanno bisogno di trovare almeno un lavoro: “Champagne rosé, questo è lo stile di vita a cui siamo abituati entrambi. Potrebbe essere un po’ difficile da… Ti piace la birra?”.

Spetta invece alla seconda parte la virata verso i toni melodrammatici, quando Terry a causa di un incidente che la blocca su una carrozzina non riesce a raggiungere Michel all’appuntamento sull’Empire State Building, decidendo di non dare più notizie di sé. Ma ancora una volta Leo McCarey riesce a sorreggere benissimo anche la parte più più impegnativa del film, grazie alla sapiente sceneggiatura, alle interpretazioni degli affiatati Irene Dunne – vitale e ironica e mai troppo compassionevole verso il suo personaggio – e Charles Boyer – redento e tormentato ma mai vinto – e ad una bellissima fotografia in bianco e nero di New York, che spazia dalle strade urbane e trafficate alla svettante maestosità dei suoi grattacieli. Quasi onnipresente l’imponente sagoma dell’Empire State Building “la cosa più vicina al Paradiso che abbiamo a New York”, che in una bellissima scena appare nitidamente riflessa nella finestra del balcone di Terry. Un’immagine che rimarrà impressa nell’immaginario cinematografico a venire, tanto che nel 1993, oltre 50 anni dopo l’uscita del film, ritornerà anche come luogo di appuntamento nella commedia sentimentale Sleepless in Seattle di Nora Ephron.

Anche in questo film McCarey non rinuncia agli intermezzi musicali a lui tanto cari, che hanno anzi l’importante ruolo di scandire le tappe della narrazione: la celebre romanza settecentesca “Plaisir d’amour”, cantata dalla stessa Dunne, sigilla il momento dell’innamoramento; Terry ritrova la sua autonomia e la fiducia in sé tornando a cantare davanti al pubblico la bella “Sing, my heart” e si risolleva dall’incidente insegnando ad un coro di bambini “Wishing will make it so” (che ricevette la nomination all’Oscar per la miglior canzone). E anche nella scena finale che chiude il film, con un happy end per cui ci si ritrova inevitabilmente a fare il tifo, McCarey riesce a farci sorridere: “Non preoccuparti – dice Terry a Michel che nel frattempo è diventato un pittore di successo – non serve un miracolo, se tu puoi dipingere io posso camminare”.

Lorenza Govoni