Se il proprio mito personale si trova a pochi chilometri di distanza, bisogna partire. Così fa il professor Antonio, protagonista di La vita è facile con gli occhi chiusi, in programmazione in questi giorni al Lumière. Una mattina del 1966, si mette in viaggio sulla sua macchina verde smeraldo diretto ad Almeria, dove John Lennon sta girando il film Come ho vinto la guerra. Il loquace professore ha fatto del cantante dei Beatles il proprio punto di riferimento e, da diversi anni, i suoi giovani studenti apprendono la lingua inglese attraverso le sue canzoni. Lungo il tragitto, Antonio, raccoglie due autostoppisti, Belén, una ragazza evasa da un rigido collegio per ragazze madri, e Juanjo, scappato di casa per opporsi a un padre troppo autoritario. I tre diventano presto un trio compatto, capace di aiutarsi e sostenersi, ma anche di condividere i propri sogni, durante l’affascinante viaggio attraverso l’Andalusia.
Basato sulla vera storia di Juan Carrión Gañán, Vivir es fácil con los ojos cerrados ha ottenuto molti riconoscimenti in Spagna vincendo ben sei premi Goya nel 2014, tra cui quello al miglior regista assegnato a David Trueba. Partendo dal verso di Strawberry Fields Forever, “living is easy with eyes closed”, Trueba racconta la vita nella Spagna franchista attraverso gli occhi dei propri abitanti, sottintendendo una tendenza generale a non voler guardare direttamente gli effetti della dittatura. I protagonisti, infatti, sembrano vivere completamente estraniati dalla realtà del Paese e le azioni, i dialoghi, la storia stessa sembrano allontanarsi da tutto ciò che è concreto. Gli stessi moti di ribellione sono deboli, motivati solo da speranze e sogni a prima vista inconsistenti. Ma la sensazione generale di poca profondità viene velata da sottili battute sul franchismo e, con la semplice inquadratura di una collina con scritto, su un versante, tre volte il nome di Franco, il film acquista un realismo necessario per raccontare l’influenza della dittatura, sempre presente in troppi ambiti della vita quotidiana.
Trueba investe il professor Antonio di una carica politica e critica, assegnandogli un ruolo rivoluzionario, facendolo diventare rappresentazione del desiderio di cambiamento presente nel Paese in quegli anni. La sua passione per i Beatles diventa simbolo di un del movimento, emblema del progresso per una nazione che cerca di uscire da anni di chiusura e di oblio. Ma il punto di vista adottato dal regista rischia di relegare la critica sociale in secondo piano, in alcuni punti chiede allo spettatore un sforzo eccessivo per cogliere i riferimenti ed evita di schierarsi in maniera netta, a differenza molti registi spagnoli che si sono espressi attraverso il cinema storico e politico negli anni successivi alla fine della dittatura.
Trueba non cerca una vera e propria rilettura del franchismo, infatti i riferimenti all’influenza del Caudillo, dal concerto dei Beatles rovinato dalla polizia, ai bambini costretti a mendicare, fino ai limiti alla libertà personale, sono celati, forse troppo abilmente, dietro la narrazione. Così facendo il regista punta l‘attenzione su Antonio e sul suo obiettivo a suo modo sovversivo per quegli anni. Ma ciò che rimane più impresso è il fascino nostalgico degli anni Sessanta, accentuato dalla fotografia rarefatta e dalla musica delicata della chitarra jazz, di una favola di un uomo alla ricerca del proprio sogno.
Chiara Maraji Biasi