L’altro volto della speranza sarà probabilmente l’ultimo titolo della filmografia di Aki Kaurismäki e se così fosse, con immenso dispiacere, dovremmo considerarlo il capitolo conclusivo di una saga esistenziale di emarginati europei, in particolare abitanti di Helsinki, non più consolati dalla speranza di raggiungere un nuovo paese in cerca di fortuna come in Ariel o nel cult Leningrad Cowboys Go America, ma sopraffatti da ondate migratorie inevitabili preannunciate dal timido arrivo di Idrissa in Miracolo a Le Havre.

I protagonisti di Kaurismäki, costretti a vite semplici costellate da rinunce e privazioni, si accorgono di non essere i soli a lottare per un’esistenza dignitosa, trovando riparo nel quartiere in cui vivono o tra i tavoli di un improbabile ristorante, condividono con i nuovi arrivati, giovani immigrati in fuga da paesi in guerra, la comune sorte, la speranza di un riscatto e non da meno la diffidenza verso le ottuse istituzioni.

Due uomini costretti ad abbandonare la propria casa, il primo, Wikström, un rappresentante di camicie insofferente verso il lavoro e la propria vita coniugale, vince a poker i soldi utili a rilevare un ristorante; vicenda che Kaurismäki intreccia alla fuga da Aleppo di Khaled, eroe suo malgrado, che tenta con tutte le forze di ritrovare la sorella persa durante il lungo e accidentato viaggio che lo ha imprevedibilmente portato in Finlandia.

Helsinki diviene il set di una favola moderna, degna di un libro di narrativa per l’infanzia, semplice e profonda, di una limpidezza di sentimenti disarmante. Sincero è il rispetto verso il prossimo a cui fa da contraltare il violento pestaggio inflitto a Khaled da parte di un gruppo di naziskin, questa aggressività gratuita, già vista ne L’uomo senza passato, pone l’accento sulla nascita di confusi nazionalismi.

Come scrive Peter von Bagh, a cui è dedicato il film, con Kaurismäki il senso dello “straordinario nell’abituale e nell’ordinario” (Ai margini della notte. Il cinema di Aki Kaurismäki, 2006) prende il sopravvento, nulla è scontato, non lo sono le battute dei protagonisti a prima vista stralunati, non lo è la solidarietà, così rara e umana, sembra dire il regista facendo leva sulle qualità dei suoi protagonisti, abitanti di un contesto fittizio atemporale, reso perfettamente dalle scenografie di Markku Pätilä e dalla fotografia di Timo Salminen, in cui si dipanano vicende ambientate nella contemporaneità.

L’atmosfera, scandita dall’alternanza del giorno e della notte, vira verso sfumature bluastre, tonalità notturne amate dal regista, le luci della sera in cui trova riparo Khaled, bevendo una birra con un amico iracheno, ospite dello stesso centro di accoglienza, e assistendo all’esibizione di due musicisti attempati. Parole straniere e sconosciute unite dal ritmo che coinvolge e avvicina le diverse culture. Un canto, un grido di speranza chiaro e battagliero come quello lanciato da Little Bob in Miracolo a Le Havre, pronto a donare a Idrissa gli incassi della serata, un concerto salvifico, che rende Libero (non a caso è il titolo della canzone intonata dallo sfiorito rockabilly) il giovane africano deciso a partire per Londra dove raggiungerà la madre.

Con L’altro volto della speranza la musica riempie i silenzi del film, il regista, avaro di parole, non lo è con le numerose melodie che si alternano sotto lo sguardo benevolo di Jimi Hendrix, presenza iconica affissa alla parete del ristorante in cui Wikström nasconde Khaled, un simbolo di quel linguaggio che neutralizza le differenze. Si sa quanto la musica possa assumere per Kaurismäki un benefico ruolo riappacificatore, divenendo un efficace trait d’union tra le culture, basta ricordare il concerto filmato e da lui stesso ideato nel 1993 a Helsinki, evento epocale in cui i Leningrad Cowboys si sono esibiti a fianco del compianto Coro dell’Armata Rossa, cittadini di due nazioni un tempo nemiche che intonavano all’unisono Sweet Home Alabama.

Cecilia Cristiani