Tra i registi più sorprendenti e innovativi di questi anni, Pablo Larraín merita un omaggio cinematografico e un approfondimento critico. Ci concentriamo infatti sulla cosiddetta “Trilogia del Cile”, per indagarne contenuti, metafore, riflessioni e analisi.

Un uomo sui cinquant’anni entra in studio televisivo per partecipare a un concorso di sosia del suo idolo più grande: Tony Manero. Ha lo sguardo cupo e non parla con nessuno. Il suo mestiere è proprio quello, dice, “lo spettacolo”. Raùl (Alfredo Castro) è un ballerino che si esibisce in una bettola con la sua modesta compagnia. Entra spesso in contrasto con il giovane idealista Goyo (Hécror Morales), che preferisce le danze folkloristiche cilene alle influenze imperialiste del Nord America.

Siamo in pieno regime Pinochet e per le strade di Santiago del Cile si respira un’atmosfera mortifera; l’esercito pattuglia le strade e i manifesti sui muri sono coperti di vernice bianca. Il grigiore della città militarizzata fa da contrasto allo sfavillante sogno pop (nord)americano; quello del giovane proletario, esuberante e superficiale, interpretato da John Travolta, che si guadagna il rispetto dei coetanei e l’ammirazione delle donne con il ballo.

Raùl è un uomo maturo diametralmente opposto al suo mito; asociale e anonimo, alienato dall’ossessione primaria per quel modello culturale così distante dal suo carattere e dalle sue radici, che non lo porta alla liberazione o al riscatto sociale, ma a raptus improvvisi di violenza brutale e allo svuotamento di personalità. La brutalità e l’annichilimento di Raùl sono quelli di un intero paese edificato sulla sopraffazione, nel periodo più violento di un regime  lungo quindici anni.

In un altro film, ambientato all’inizio di quel “momento grigio e amaro”, l’impiegato statale Mario, vede accumularsi le vittime del golpe sui lettini dell’obitorio dove presta servizio come dattilografo. Rispetto a Tony Manero, in Post Mortem viene meno l’uso frequente di macchina a spalla e i pedinamenti documentaristici per la città, in favore di inquadrature più statiche e simmetriche da cinema nord-europeo. La tensione degli anni più violenti del regime è sostituita da una sensazione di calma piatta, come la quiete prima della tempesta. Le armate cilene guidate dal generale Augusto Pinochet hanno appena rovesciato il presidente Salvator Allende, dopo le pesanti pressioni diplomatiche ed economiche degli Stati Uniti sul governo socialista eletto democraticamente due anni prima.

Un giorno sotto le mani del medico legale per cui lavora Mario finisce il corpo senza vita dello stesso Allende, ferito mortalmente da un colpo “a breve distanza” che gli ha trapassato il cranio. Le circostanze della sua morte rimangono tutt’oggi oscure; secondo la versione ufficiale si suicidò pur di non arrendersi a Pinochet, mentre secondo altri fu ucciso dai golpisti durante la difesa del palazzo presidenziale.

Era il 1973 e il regista Pablo Larraín aveva tre anni. Il rampollo di una potente famiglia di conservatori vicina al regime diventerà, anni dopo, il più talentuoso e versatile cineasta ad aver riletto le pagine più drammatiche del suo paese. Larraìn evita sia l’ovvio dell’ambizione civile che la rilettura revisionista della storia. Non rinnega mai la propria estrazione, ma la filtra attraverso lo sguardo dei suoi protagonisti e la loro impotenza politica. In Tony Manero e Post Mortem le vicende di Raùl e Mario, sopiti in un individualismo disperato, sono quasi sempre scisse dagli eventi storici che si delineano intorno a loro. Non appartengono a nessuna fazione e perciò sono soli, squallidi, privi di qualsivoglia slancio vitale. Le loro azioni sono mosse esclusivamente da desideri individuali, ma riflettono la condizione di un’intera società, così come l’estetica, cangiante da film a film, che il regista usa per raccontarli.

Per un dialogo più diretto con gli eventi storici occorre aspettare No – I giorni dell’arcobaleno. Nel terzo film della sua trilogia ideale sul Cile, Larraín racconta la storia di Rene Saavedra (Gael Garcìa Bernal), un giovane e talentuoso pubblicitario senza particolari ambizioni politiche, che si trova a curare la campagna degli oppositori di Pinochet nel referendum che porrà fine al regime.

Il film è girato interamente in 4:3 con macchine da presa analogiche Ikegami del 1983, nello stesso formato di quasi tutti gli archivi originali degli anni in cui è ambientato. In questo modo il regista e il fedele direttore della fotografia Sergio Armstrong, creano un perfetto equilibrio fra materiale d’archivio e girato del film rendendoli indistinguibili agli occhi dello spettatore.

Rene, come lo stesso Larraín, è figlio del sistema neoliberale che Pinochet imposta in Cile e svolge il suo lavoro con gli stessi strumenti ideologici provenienti dalla dittatura inventando una campagna pubblicitaria piena di simboli e di obiettivi politici. Invece di puntare sulle violenze e i massacri di regime, decide di giocare sull’entusiasmo e l’euforia nei 15 minuti al giorno di TV nazionale che il regime concedeva agli oppositori.

“Una strategia di comunicazione che  in realtà nasconde il futuro di un paese”, dice Larraín. “Secondo me la campagna per il NO è solo il primo passo verso il consolidamento del capitalismo come unico sistema possibile in Cile. Non è una metafora: è il capitalismo, vero e proprio, prodotto dalla pubblicità, applicata alla politica”.

Nella penultima sequenza del film, la tv annuncia la vittoria del No e nella sede del comitato i militanti esplodono in cori di festa. Mentre tutti festeggiano e gli alti esponenti rilasciano dichiarazioni, Rene prende in braccio suo figlio ed esce in strada; il grigiore mortifero della Santiago di Tony Manero è sostituito da bandiere e cori di gioia. Rene si fa strada fra i festeggiamenti; il suo sguardo riflessivo ricorda quello di Dustin Hoffman nell’ultima inquadratura de Il Laureato in un happy end dove tutto è risolto ma nulla è veramente concluso.

Angelo Santini