Grazie all’omaggio che la Cineteca di Bologna sta offrendo a Motus, abbiamo la possibilità di ritronare su La leggenda di Kaspar Hauser di Guido Manuli.
Che si fa nell’isola dell’Asinara? Si narra una storia, quella di Kaspar Hauser, il mito vivente e tutto ottocentesco del bon sauvage. Se il racconto storico è quello di un fanciullo linguisticamente primitivo, sbarcato misteriosamente a Norimberga nel 1828, il film di Davide Manuli (La leggenda di Kaspar Hauser, 2012) riprende quel plot e lo propone in versione postmoderna.
A proposito del soggetto del film, in un intervista dello stesso Manuli si legge: “L’idea è nata assieme ai produttori della ‘Blue Film’ dopo l’ottima esperienza fatta in Sardegna con il mio film Beket perché volevamo tornare a girare assieme negli stessi posti. Da lì è maturata l’idea che covavo da tanti anni di rifare un Kaspar Hauser a modo mio, come secondo capitolo del dittico sulla solitudine umana. Volevo usare Kaspar come metafora del non-senso tra gli individui, della non-comunicazione”.
Dunque, se da una parte si tratta di considerare La leggenda di Kaspar Hauser come un film che nasce a partire da un luogo, la Sardegna, regione che ha accettato di finanziarne le riprese (è questo un altro caso in cui sono i luoghi a determinare le storie; pensiamo ad Antonioni che gira sulla spiaggia rosa dell’isola di Budelli per Deserto rosso), dall’altra si tratta di rendere Kaspar Hauser metafora musicale dell’incomunicabilità in epoca postmoderna. Ci si è riusciti con un personaggio venuto dalle acque (anche metafora cristologica, dunque?) con il petto tatuato e le scarpe Adidas, che ascolta techno-music in cuffia.
Nel film, le musiche originale di un artista come Vitalic sono alternatamente interne ed esterne alla narrazione: da una parte, la musica in cuffia isola Kaspar impedendogli di sentire i discorsi degli altri personaggi (pensiamo ai ragionamenti del prete che si riducono ad un monologo davanti al protagonista su questioni umane e religiose), dall’altra lo spettatore si può riconoscere in situazioni in cui la mancanza di comunicazione tra gli esseri umani è dovuta alla presenza di una musica sintetica assordante (pensiamo alla scena della discoteca in Paradiso, o a quella in cui lo sceriffo vuole insegnare a Kaspar a fare il dj). Se il paesaggio naturale è desertico e selvaggio, il paesaggio sonoro è caratterizzato tecnologicamente (frequentissima è la presenza di microfoni, consolle musicali, casse, altoparlanti, stereo), ma entrambi possono essere messi in connessione con l’idea rappresentativa di un mondo pseudo-fantascientifico alienato e alienante (ecco allora spiegate le navicelle spaziali in apertura).
Alla fine, è lo stesso Manuli che sintetizza bene: “siamo finiti nel retrò-futurismo”.
Marianna Curia – Associazione Culturale Leitmovie